Da il Corriere della Sera del 29/07/2021
Orgogliosamente di destra, dice: salvare una vita, il dovere più alto
GERUSALEMME – Dal villaggio di Eshhar a Gaza sono 190 chilometri, 3 ore e un quarto in auto, qualche decennio di ostilità. Dal nord di Israele e le colline dell’alta Galilea giù verso il deserto e il risentimento reciproco. Per i 50 anni, in maggio, Idit Harel ha deciso di farsi un regalo, di fare un regalo: donare un rene a un malato in attesa di trapianto. «Sono stata ispirata dai racconti e dagli insegnamenti di mio nonno, sopravvissuto all’Olocausto — dice all’agenzia giornalistica Associated Press —. Mi raccomandava di seguire la tradizione ebraica: non esiste dovere più alto che quello di salvare una vita».
In quegli stessi giorni Israele e Hamas dalla Striscia si combattono, i cicli di guerra che ritornano come i compleanni. Orgogliosamente di destra, convinta che sarebbe stato meglio se «nel 1948 tutti gli arabi avessero lasciato il nostro Stato nascente», Idit si è ritrovata a diventare un simbolo della convivenza possibile e per lei impensabile. Il suo organo è stato destinato a un bambino di Gaza colpito alla nascita da un problema congenito, in attesa dai suoi tre anni del trapianto.
È stato difficile spiegare la scelta alla famiglia: il marito ha cercato di dissuaderla, i tre figli l’hanno sostenuta, il padre ha smesso di parlarle. Rimasto orfano quando i genitori sono stati uccisi in un attentato a Gerusalemme nel 1948, lo zio che lo aveva adottato ammazzato in un attacco palestinese durante la seconda intifada, all’inizio Idit non gli ha voluto rivelare chi fosse a ricevere il dono: pensava che non avrebbe saputo accettarlo, che a lui sarebbe sembrato un perdono. Lei ripete che la sua decisione non è stata politica. Sempre in quelle settimane di maggio, quando la violenza è tracimata dentro a Israele tra cittadini ebrei e arabi, una cristiana di Gerusalemme ha ricevuto il rene di Yigal Yehoshua, ucciso a pietrate perché ebreo mentre tornava a casa a Lod.
La famiglia
Il marito ha cercato di dissuaderla, i figli erano con lei, il padre ha smesso di parlarle
A Bilal che crescerà grazie a lei – non è stato dato il suo vero nome per paura di ritorsioni a Gaza – Idit ha scritto una lettera prima dell’intervento: «Non mi conosci, ma presto io e te saremo molto vicini perché un mio organo starà nel tuo corpo. Spero che questa operazione funzioni e tu possa avere una vita lunga e significativa».
La legge israeliana incentiva i trapianti anche attraverso la reciprocità: il piccolo palestinese è finito in cima alla lista d’attesa dopo che il padre (incompatibile come donatore per il figlio) ha accettato di dare un rene, andato a un’israeliana di 25 anni. In ospedale le due famiglie si sono incontrate, per qualche ora sono state vicine, la guerra sempre tra di loro: l’appartamento dei palestinesi è stato distrutto durante gli 11 giorni di conflitto. «Gli ho portato le favole scritte da David Grossman tradotte in arabo — racconta Idit al giornale Times of Israel —. Un momento di grande tenerezza e allo stesso tempo quasi irreale quando la madre mi ha lasciato prenderlo in braccio». Dall’ospedale ha chiamato il padre e questa volta lui ha risposto: «È scoppiato a piangere e a quel punto gli ho detto che il rene sarebbe andato a un bambino arabo. C’è stato un sospiro, silenzio, poi: anche lui ha diritto alla vita».