Morti di morte violenta e all’ultimo pentiti: la furia degli uomini scatenata dall’ira e dalle passioni senza freno è vinta dal pentimento
di Leonardo Gallotta
Nella schiera dei negligenti del IV canto uno spirito, avendo notato che il corpo di Dante fa ombra, grida agli altri che sembra proprio vivo. Il poeta fiorentino si volge indietro, rallentando il passo e Virgilio, per tale rallentamento, lo rimprovera. Nel frattempo – siamo nel V canto del Purgatorio – avanza un’altra schiera che canta il Miserere. Accortisi anch’essi che il corpo di Dante fa ombra, due di essi raggiungono i poeti e chiedono spiegazioni. Virgilio dichiara che Dante è vivo e invita i due messaggeri a riferire la cosa agli altri, i quali allora si muovono verso i due poeti. Virgilio dice a Dante che può parlare con le anime, ma senza interrompere il cammino per non perdere troppo tempo.
La schiera, come dirà di lì a poco uno spirito, è quella dei morti di morte violenta e pentitisi all’ultima ora. Una delle anime dichiara di essere Jacopo del Cassero, prega Dante di ricordarlo ai suoi familiari in Fano e riferisce sulla sua tragica morte. Costui apparteneva ad una nobilissima famiglia di Fano. Nato nel 1260, partecipò a numerosi fatti d’arme e occupò molte cariche pubbliche. Nel 1296 fu capitano delle milizie e podestà di Bologna. Come tale si oppose con forza alle mire sulla città felsinea da parte del signore di Ferrara, il marchese Azzo VIII d’Este, inimicandoselo a vita. Mentre da Fano si recava a Milano, chiamato ad esservi podestà, via mare a Venezia e poi nel padovano, dove Jacopo si credeva più sicuro, la vendetta del marchese, a lungo covata, lo raggiunse. Ad Oriago, sulle rive del Brenta, impigliatosi in un canneto, venne raggiunto nel fango della palude dai sicari di Azzo d’Este e assassinato. Aveva purtroppo sbagliato la via di fuga.
Senza transizione si passa al secondo personaggio, vale a dire Bonconte di Montefeltro che subito si presenta e chiede a Dante di ricordarlo sia alla moglie Giovanna sia agli altri parenti che di lui non si curano più. Fu ghibellino e, a capo degli Aretini, combattè contro Firenze a Campaldino – la battaglia a cui partecipò anche Dante – e quivi fu ucciso. Il suo cadavere non fu più ritrovato e questo fatto, risaputo da molti ai suoi tempi divenne occasione per il racconto, da parte di Dante, della sua morte e delle successive vicende del suo corpo. Su richiesta del poeta fiorentino narra Bonconte che là dove l’ Archiano si immette nell’Arno, giunse ferito alla gola e sanguinante. Finì i suoi giorni nel nome di Maria e lì rimase solo il suo corpo che venne disputato tra l’angelo di Dio e quello infernale. Quest’ultimo, adirato per la “lagrimetta”di pentimento di Bonconte, dice che, privato del possesso della sua anima ormai salva, provvederà lui stesso a sistemare il suo corpo. Scatenò infatti una tempesta che rivoltò il corpo, finito in acqua e alla fine coperto dai detriti dei due fiumi (Archiano e Arno) in piena.
A questo punto mi piace riportare le parole di Umberto Bosco: “ Sulla giornata sanguinosa della battaglia, il sole si spegne. L’oscurità aumenta l’ampiezza del paesaggio, che Dante ancora rievoca: cioè il grandioso orrore della scena. Il poeta segna il crescendo della bufera, i suoi vari gradi, sempre più spaventosi. Il cielo, sulla valle oscura, è gonfio, teso, minaccioso; si abbassa sino a confondersi con l’aria, si rovescia in acqua: anzi diventa esso stesso tutto acqua (“ il pregno aere in acqua si converse”) ; questa imbeve prima la terra, quel che avanza si riversa nei fossati; non basta: giunge ai ruscelli grandi, rovina nell’Arno. Tanta furia, tanta rabbia, perché? La furia rabbiosa degli elementi segue e sottintende quella degli uomini: gli uni e gli altri scatenati dal demone dell’ira e dall’irragionevole passione. Vane l’una e l’altra; eppure irrefrenabili. La grandiosità della scena e della bufera è in relazione con l’assurda piccolezza dello scopo da raggiungere. Tanta furia è per vendicare una “lagrimetta” – vendetta ormai senza scopo, puro dispetto e odio; l’essenziale è perduto – per un povero corpo gelato; per sciogliere la croce che due braccia avevano formata su un petto nell’istante in cui, guidata dal dolore, la bontà aveva prevalso. Complesso e inutile l’odio; semplici e sicure la bontà e la pietà”.
Ed ecco intervenire il terzo spirito di questo canto, Pia de’ Tolomei. Brevissimi i riferimenti alla sua morte con versi conosciuti da tutti coloro che hanno studiato la Divina Commedia. Per chi non li ricordasse, qui di seguito son riproposti: “Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via” / seguitò il terzo spirito al secondo,/ “ricorditi di me , che son la Pia;/ Siena mi fé, disfecemi Maremma:/ salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma”.
L’identificazione di questo personaggio non è certissima, ma la maggior parte degli antichi commentatori la dice della famiglia dei Tolomei di Siena. Andò sposa a Nello de’ Pannocchieschi e fu lui a farla precipitare dal balcone del suo castello della Pietra, in Maremma. Quale la causa dell’uccisione? Secondo alcuni sarebbe stata la punizione di un’infedeltà, secondo altri per passare a nuove nozze. È però certo che possediamo molti e abbondanti documenti su Nello de’ Pannocchieschi, sulla sua relazione seguita da matrimonio con una donna dai molti mariti e non meno numerosi amanti, Margherita degli Aldobrandeschi. Sempre Umberto Bosco dice sulla figura di Pia: “Non è possibile che Dante, strutturalmente,volesse lasciarci nell’oscurità e nel dubbio. Come per Jacopo e per Bonconte, egli vuole al contrario chiarirci il modo di quella morte, e ci dice l’essenziale: Pia fu uccisa dal marito in Maremma. La ragione non ce la dice; forse anche perché non la sapeva, semplicemente la sospettava. Che ella fosse peccatrice fino all’ultima ora, poteva desumerlo dal fatto stesso della scomparsa improvvisa; ma non è detto che i suoi peccati siano stati d’amore. Una cosa sola è poeticamente certa: la pietà affettuosa con cui Dante disegna lievemente questa figura di donna. È la pietà suscitata, forse in tutti e certo in lui, dalla scomparsa misteriosa di una donna gentile; Dante dirada il mistero indicandoci il colpevole; ne addolcisce la pena prendendo affettivamente posizione per la vittima, quale che fosse la ragione dell’assassinio. Abbiamo detto che Dante disegna lievemente. Giacché, se la struttura non può puntare sull’indefinito, vi punta decisamente la poesia. Vuol suggerire, non rappresentare; creare un alone, non scolpire un’immagine rilevata”.
Sabato 16 settembre 2023