Di Guido Santevecchi da Il Corriere del 03/12/2020
Tredici mesi e mezzo di reclusione. È la condanna inflitta al ventiquattrenne Joshua Wong per aver partecipato alla rivolta democratica del 2019. In particolare, è colpevole di aver tenuto un discorso alle migliaia di compagni che la notte del 21 giugno 2019 circondavano il comando della polizia di Hong Kong per protestare contro le manganellate e i lacrimogeni sparati dagli agenti. «Saranno giorni duri, ma resisteremo», ha gridato il giovane mentre lo portavano via in manette assieme agli altri due imputati del processo, Agnes Chow, condannata a dieci mesi, e Ivan Lam, che dovrà passare sette mesi in detenzione. Joshua e Ivan conoscono già il carcere; per Agnes è la prima volta ed è scoppiata in lacrime in aula: nei giorni scorsi la studentessa aveva ammesso di essere vicina al crollo psicologico. Compie 24 anni oggi, in cella.
«Una sentenza necessaria per enfatizzare deterrenza e punizione», ha detto il giudice, tradendo l’obiettivo politico della condanna. I tre ragazzi vanno in cella perché Hong Kong è normalizzata e Pechino non riconosce più l’impegno firmato con la Gran Bretagna per ottenere la restituzione della colonia nel 1997: allora la Cina aveva promesso di rispettare fino al 2047 la diversità storica della City, il suo sistema semi-democratico. Da luglio invece Hong Kong è stata assoggettata alla Legge sulla sicurezza nazionale cinese: manifestare anche pacificamente contro il potere è reato. Chi esprime dissenso politico ora a Hong Kong può essere punito per «sovversione e collusione con potenze straniere», esattamente come nelle altre città della Cina, dove infatti nessuno osa sfidare il Partito-Stato. «La sentenza a carico di Wong e dei suoi due amici secessionisti è un monito per i giovincelli di Hong Kong avvelenati da idee malsane», scrive la stampa di Pechino. Eppure ieri un gruppo di attivisti democratici ha avuto il coraggio di raccogliersi davanti al tribunale, per dimostrare solidarietà con i condannati.
Nella cella di Joshua Wong la luce resta sempre accesa; lo hanno messo in isolamento e lo sorvegliano di continuo, negandogli anche l’ora d’aria. In queste condizioni tredici mesi e mezzo sono una prova che segna la vita: «Sono solo, come in una prigione dentro la prigione», ha scritto Wong agli amici. Però promette di resistere. Sul suo account Twitter ha fatto scrivere da un avvocato: «Questa condanna non è la fine della battaglia, ora ci uniamo ai tanti combattenti coraggiosi che sono già in carcere, invisibili ma essenziali alla resistenza per la libertà di Hong Kong».
Joshua Wong, Agnes Chow e Ivan Lam non hanno mai compiuto atti violenti, pagano per le loro idee politiche: dopo aver guidato la Rivoluzione degli Ombrelli nel 2014 erano maturati, formando il partito Demosisto. La notte del 21 giugno 2019 Joshua impugnava solo un megafono, con il quale incitava la folla a restare ordinata. Erano i primi giorni della rivolta innescata dalla legge sull’estradizione, che minacciava di consegnare gli oppositori dell’ex colonia britannica alla «giustizia» della Repubblica popolare. Una rivolta. Joshua, all’inizio del giugno 2019 era in cella. Lo liberarono il 16 giugno per buona condotta e lui corse subito in strada, si mischiò alla nuova protesta.
Con il suo inglese scandito come quello di un rapper Joshua aveva detto al Corriere: «Avrò 50 anni nel 2047, voglio vivere qui e voglio che il futuro sia deciso dalla gente di Hong Kong, non dal partito comunista in Cina. Siamo tutti pronti a pagare il prezzo delle nostre idee».
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