di Susanna Manzin
Avete mai pensato all’etimologia della parola “compagno”? Viene da “cum + panis”: è colui con il quale mangio il pane. E la parola “convivio”, termine un po’ desueto, sinonimo di banchetto? Viene da “cum + vivere”. Vivere insieme significa mangiare insieme; se dividiamo la mensa, significa che le nostre vite sono unite. Ed è vero anche il contrario: se le nostre vite sono unite, allora mangiamo insieme.
Mangiare insieme è tipico degli uomini: il cibo non racchiude in sé solo un aspetto biologico e nutritivo. E’ espressione anche di aspetti culturali, sociali, simbolici. Condividere la stessa tavola vuol dire appartenere a quel gruppo, a quella famiglia, a quella corporazione, a quella comunità monastica.
Se invitate qualcuno a casa vostra, a cena, quella persona si sentirà gratificata da quell’invito, perché significa che lo fate entrare nella vostra vita, nella vostra famiglia, nella vostra comunità.
Gli uomini hanno sempre intuito e dato valore all’aspetto sociale del nutrimento: per questo motivo trasformano in piacere e bellezza la necessità del sostentamento quotidiano.
Inoltre, il carattere sociale del momento del pasto ha dato vita ad una serie di formalità, di riti. Cominciamo dall’orario: se si mangia insieme, dobbiamo stabilire un orario, ci diamo un appuntamento per celebrare quel rito. L’orario varia a seconda delle aree geografiche, delle abitudini, del clima. Alle 21.00 in Germania hanno già sparecchiato, in Spagna non si sono ancora seduti a tavola.
Poi si mangia in una stanza specifica: la cucina abitabile, il tinello, la sala da pranzo, la terrazza di un appartamento di vacanze, il giardino di una villa nell’estate assolata. La famiglia mangia spesso in cucina, se le dimensioni del locale lo permettono: è più pratico, comodo. Ma quando ci sono ospiti si apparecchia in sala da pranzo, per dare importanza e solennità all’occasione di riguardo.
Se cambiano i commensali, cambia la qualità delle tovaglie, dei piatti, dei bicchieri, degli accessori.
La tavola della festa, del Natale, della Pasqua, del compleanno sarà una tavola diversa rispetto a quella di tutti i giorni.
Esiste insomma una forma, una grammatica che viene socialmente rispettata perché corrisponde a specifiche esigenze culturali e sociali. La bellezza della tavola e dei suoi riti è frutto dei legami interpersonali autentici. Sotto la ragione estetica si nasconde un’esigenza morale. E non parlo di bellezza come lusso, come ostentazione, come performance. Ma della bellezza dell’ordine, di un rito che produce effetti sulle persone che lo vivono.
La cucina e la tavola diventano così lo specchio delle relazioni tra le persone, la misura della comunione raggiunta. Significa testimoniare gli uni agli altri il desiderio che l’altro stia bene.
Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Si’ ricorda che «gli ambienti in cui viviamo influiscono sul nostro modo di vedere la vita, di sentire o di agire» (n° 147) e mette in guardia dagli ambienti disordinati e caotici. Aggiunge anche che « Al tempo stesso, nella nostra stanza, nella nostra casa, nel nostro luogo di lavoro e nel nostro quartiere [n.d.r. aggiungerei: sulla nostra tavola] facciamo uso dell’ambiente per esprimere la nostra identità».
La tavola diventa così una alta espressione della cultura umana, è una forma di arte: non esagero parlando di arte, perché c’è bellezza nell’apparecchiatura e nel gusto dei cibi. Ma se gli uomini si impegnano alla ricerca della bellezza a tavola è grazie alla felice relazione tra qualità del cibo e qualità della relazione.
Chi prepara un pranzo deve sapere che la sua è un’attività molto importante, perché nelle sue mani si concentra un potere molto particolare, per gli effetti che si possono produrre nella relazione tra i commensali.
(Pubblicato sul blog Pane & Focolare
https://paneefocolare.com/2015/11/09/la-bellezza-della-tavola-la-bellezza-della-compagnia/)