Comunicare con le immagini e le emozioni, per sfondare i muri d’indifferenza dei media.
di Luca Finatti
“Comunicare di più attraverso le storie non significa trasformare la verità in menzogna, o ‘abbellire’ nel senso di manipolare la verità, ma significa riuscire a superare – in molti casi – gli sbarramenti del disinteresse, della freddezza, del pregiudizio”. (p. 50)
In un’epoca in cui sembra che l’annuncio cristiano stenti sempre più a farsi strada, almeno all’interno dei grandi mezzi di comunicazione, vale davvero la pena rileggere il saggio del prof. Armando Fumagalli, ordinario di Teoria dei linguaggi e docente di Semiotica presso la sede di Milano dell’Università Cattolica, intitolato La comunicazione di una ‘Chiesa in uscita’. Riflessioni e proposte (Vita e pensiero, Milano 2015).
Esperto di sceneggiatura televisiva e cinematografica, il prof. Fumagalli è consulente dal 1999 della Lux vide, la società di produzione audiovisiva italiana più prestigiosa, soprattutto nella realizzazione di prodotti a tema religioso (storie di santi, protagonisti della Bibbia, Don Matteo, Che Dio ci aiuti). Anche per questa ragione, l’autore non si limita a descrivere e a lamentarsi della scarsa efficacia del mondo cattolico in tale ambito, ma porta esempi positivi di un impegno culturale e professionale di alto livello, per spronare i credenti ad agire con maggiore competenza, anzitutto nella formazione degli sceneggiatori, coloro che trasformano valori e ideali in storie capaci di arrivare al cuore e all’intelligenza degli spettatori.
Il saggio è diviso in due parti: nella prima si ragiona su alcuni aspetti dello stile comunicativo del cristiano di fronte alle sfide del tempo presente; nella seconda si commentano e si approfondiscono alcune riflessioni di san Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975) e l’impatto della “presenza” di san Giovanni Paolo II (1978-2005) nella televisione italiana e internazionale.
Quando si parla di mezzi di comunicazione di massa, non si ricorda mai abbastanza l’abissale disuguaglianza tra le “pochissime persone che hanno una grande incidenza sul piano culturale, e una maggioranza di persone che, sostanzialmente, subiscono questa preminenza di pochi” (p. 16). In Italia bastano centocinquanta persone tra dirigenti di rete, sceneggiatori, produttori, registi per avere il 90% della responsabilità dei contenuti della fiction televisiva in onda in un anno sui canali generalisti; in un Paese come gli Stati Uniti basterebbero circa cinquecento persone per avere la quasi totalità degli autori delle serie che vengono poi diffuse in tutto il mondo.
Inoltre, questa vera e propria oligarchia culturale è un gruppo coeso ideologicamente, che porta nelle storie i propri valori di riferimento: l’aborto e l’eutanasia come diritto, l’ideologia gender, il femminismo rivendicativo, la propaganda del riconoscimento legale delle unioni omosessuali. In questo gruppo sono rare le persone stabilmente sposate e con figli, quindi si spiega facilmente la crescente difficoltà a trovare racconti audiovisivi in cui la famiglia, e il ruolo del padre in particolare, sia valorizzata.
Il prof. Fumagalli però non grida al complotto, va alla ricerca di esempi positivi e indica percorsi di ricerca. Ricorda anzitutto che “il cinema può essere considerato di gran lunga la più importante fonte di elaborazione e diffusione culturale della nostra società” (p. 23), facendo “da apripista a idee nuove” (p. 24) e incidendo profondamente sulla visione del futuro.
Anche se ormai le sale cinematografiche sono soprattutto frequentate da un’élite di adulti, perché altri sono i media preferiti dai giovani, le idee propugnate dai film di successo arrivano a cascata anche sul resto della società.
La televisione invece lavora, in modo continuo e profondo, sulle lunghe distanze e funziona come “una sorta di ‘ambiente di coltura’ che coltiva atteggiamenti di fondo – per esempio fiducia o sfiducia, soddisfazione o insoddisfazione – incide sulle relazioni familiari e sulle dinamiche di previsione del proprio futuro (speranza o pessimismo, paura o audacia)” (p. 26).
In tale contesto è fondamentale una presenza cristiana qualificata e professionale, perché laddove agisce con fede e competenza, spesso si ottengono risposte confortanti dal pubblico.
L’ultima cima (2010), Popieluszko (2009), The Blind Side (2009), senza dimenticare la meteora La passione di Cristo (2004), sono stati film di qualità e di successo, dimostrando così che non è vero, come molti sceneggiatori pensano, che si debba andare contro la morale cristiana per ottenere il consenso del pubblico.
Anche solo scorrendo i maggiori incassi degli ultimi vent’anni, ai primi posti troviamo opere come Il Signore degli anelli (2001),Batman Begins (2005), Toy Story 3 (2010) e altri titoli dove la sensibilità umana e poetica è in sintonia con la visione cristiana della vita.
“Una storia ‘potente’ – scrive Fumagalli – lungi dall’essere un’arbitraria creazione di pura fantasia, è sempre, essenzialmente, una risposta a un grande dilemma morale” (p. 59) che conduce il protagonista ad affermare un valore attraverso scelte decisive che forgeranno il suo destino. Ogni buona storia è quindi anche “una riflessione morale compiuta non in astratto, ma a partire da un caso concreto” (p. 60).
E chi meglio della Chiesa, “esperta in umanità” (san Paolo VI [1963-1978], Lettera enciclica Populorum progressio, n. 13), dovrebbe sapere narrare il dramma dell’uomo alla ricerca del significato della propria vita, imparando dal Maestro che insegnava raccontando parabole?
Probabilmente molti cattolici devono però ancora superare una certa diffidenza verso un mondo spesso fatuo e ostile, senza necessariamente rifugiarsi in una comunicazione puramente intellettuale per pochi eletti.
Bisognerebbe invece recuperare, nella tradizione aristotelica e tomista, il giusto ruolo delle emozioni: collegate alle convinzioni, aiutano a percepire la qualità del mondo, a coglierne in profondità valori e significati, ma bisogna orientarle verso il bene, attraverso una rinnovata educazione alle virtù, che proprio nell’arte narrativa possono trovare esempi da meditare.
Infatti, quando i racconti funzionano, può accadere che centinaia di giovani, dopo avere letto il romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori, Milano 2010), scrivano lettere di questo tipo all’autore Alessandro D’Avenia: “Grazie a te la mia fede in Dio sta tornando […] Sto iniziando a vedere Dio come un amico” (p. 43); così come, in un contesto completamente diverso, “il film Juno, nonostante tutti i suoi limiti, ha convinto molte ragazze incinte a tenere il bambino” (p. 59).
Il libro è arricchito dall’analisi delle strategie comunicative dell’associazione cattolica Vitae Foundation sul tema dell’aborto e dalla descrizione dello stile di apostolato diCatholic Voices, arrivando a conclusioni preziose quanto realistiche: “Chi e come si fa sentire la voce della Chiesa? È una domanda sulla quale vale la pena riflettere. Penso che però la risposta a queste sfide non possa venire dai media confessionali, ma solo da nuove generazioni (ne saranno necessarie più di una) di laici cristiani che ‘stiano al gioco’ del mondo della comunicazione, abbiano la pazienza di imparare le tecniche del racconto mainstream e di tutte le forme di comunicazione (non bastano tre mesi, ci vogliono alcuni anni, nelle migliori scuole del mondo, e per arrivare nelle migliori scuole del mondo ci vogliono anni di preparazione), e abbiano la forza intellettuale e morale di far sentire la loro voce in questa grande sinfonia” (p. 65).
Sabato, 26 settembre 2020