Da Avvenire del 18/08/2021
Deng Xiaoping sarebbe contento. La «spina afghana», che come quella vietnamita aveva cercato invano di togliersi negli anni ’80, prima imbarcandosi nella disastrosa «lezione» contro Hanoi, poi appoggiando segretamente i mujaheddin contro i sovietici, si è tolta da sola.
Ufficialmente il governo cinese mantiene ancora un certo equilibrio, evita ancora dichiarazioni ufficiali, ma i media sono scatenati. Ed in Cina questo non avviene per caso. I giornali ufficiali del partito, il “Quotidiano del Popolo” e la sua versione inglese, il “Global Times”, parlano di «momento storico», di «ennesima prova di irresponsabilità degli Stati Uniti», della grande occasione che il popolo afghano ha di riconquistare la sua sovranità. Con l’aiuto, si capisce, della Cina. E del suo ormai potente “scudo” internazionale.
Un aiuto diverso da quello brutale esteso dai sovietici prima e poi dagli americani. «Perché la Cina è diversa – scrive il “Global Times” – la Cina non invade, non bombarda, non occupa.
E non vuole imporre i suoi valori. Ma non permette nemmeno che altri li impongano.
Rispetto reciproco e cooperazione economica sono i pilastri sui quali si devono reggere le relazioni internazionali». Sembrerebbe già tutto deciso. Sono mesi che Pechino si prepara al ritorno dei taleban, e alla luce del sole. Lo scorso 28 luglio, il giorno dopo aver accolto gelidamente il vicesegretario di Stato Usa Blinken, nello stesso albergo, ma in una sala più lussuosa, il ministro degli Esteri Wang Yi aveva incontrato, dandone ampia visibilità sui media locali ed internazionali, una delegazione dei «nuovi» talebani, guidata dal leader mullah Abdul Ghani Baradar, che oggi comandano a Kabul. Tre ore di colloqui in cui probabilmente sono stati fissati i termini di una collaborazione impensabile sino qualche anno fa, ma che oggi sembra cosa fatta. Nessuna concessione al terrorismo, sia internazionale che «regionale» (leggi Xinjiang) in cambio di aiuti «disinteressati» per la ricostruzione e lo sviluppo del paese. Nessuno sa , forse nemmeno i cinesi, anche se sono sicuramente i più informati, quali saranno le prime mosse dei talebani, aldilà delle prime dichiarazioni moderate dei loro portavoce. Ma è certo che Pechino si trova in pole position, ora, non solo per aggiungere l’ultimo, indispensabile anello al grande progetto della Via della Seta (ad esempio con la realizzazione dell’autostrada tra Kabul e Islamabad, già progettata e finanziata ma sinora bloccata dal governo filooccidentale, ma anche quella che dovrebbe attraversare il corridoio del Wharkan, rendendo più controllabile il delicato confine con lo Xinjiang) ma anche di accaparrarsi, con netto anticipo rispetto a chiunque altro, Russia compresa, il vero tesoro afghano. Che non è più, o non è più solo, l’oppio ma una manciata – si fa per dire, si parla di migliaia di tonnellate – di minerali dai nomi un po’ fiabeschi: scandio, ittrio, promezio, gadolinio, terbio e disprosio, tanto per citarne alcuni. Tutti elementi indispensabili per produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno oggi, dai semiconduttori alle fibre ottiche, passando per i veicoli ibridi e la strumentazione diagnostica, e che vanno sotto il nome di “terre rare”. La Cina, si dice, detiene già oltre l’80% della produzione mondiale. Assicurandosi il diritto di sfruttamento dei giacimenti afghani – valore stimato mille miliardi di dollari – ne avrebbe il monopolio. I carri armati non servono più.