Nelle arti visive e musicali vi è tutto un fiorire innescato dalla linfa cristiana, che oggi appare bruscamente interrotto, domani chissà…
di Stefano Chiappalone
Deus in adiutorium meum intende – Domine ad adiuvandum me festìna («O Dio, vieni a salvarmi» – «Signore, vieni presto in mio aiuto»). Due celebri versetti del salmo 70 (69) che aprono quasi tutte le ore liturgiche e alcune preghiere devozionali. Così brevi che pronunciarli richiederebbe una manciata di secondi e poco di più il Gloria Patri che normalmente li segue. Il tutto si prolunga invece per oltre 2 minuti nel Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi (1567-1643). Non è solo questione di lunghezza, né di allungare in qualche modo il brodo a suon di gargarismi. Al contrario, durano così “tanto” perché il compositore cremonese li fa letteralmente fiorire: su ogni parola sbocciano, anzi esplodono innumerevoli note.
In altre parole, per via musicale si percepisce quel germogliare, spuntare, brulicare, sbocciare che in certi codici va delineando foglie, frutti, animali e personaggi terreni e celesti, dentro e tutt’intorno a una singola lettera miniata, come se al solo aprirsi di quelle antiche pagine si innescasse una nuova Creazione.
Fioritura è forse il termine che meglio esprime quell’arte – e la società che ne era causa ed effetto – così lontana dalla nostra mentalità incapace di simboli. Simboli che disegnavano una “foresta” tutt’intorno a un capitello o a un portale, che “impregnavano” la società terrena del mondo invisibile in cui era immersa. Croci, scudi, stemmi, motivi floreali, zoomorfi o istoriati, come se l’intero mondo visibile divenisse a sua volta un immenso codice che illuminava gli uomini con i suoi colori variopinti e i dorati riflessi dell’eterno. Di quella fioritura partecipavano spontaneamente anche le arti cosiddette minori, dal ricciolo di un pastorale all’evangeliario, ai candelabri, alle corone dei sovrani, agli anelli, alle suppellettili per l’uso sacro e profano. Ogni realtà terrena, fino alle più minute, recava una qualche traccia della Gerusalemme Celeste, i cui basamenti sono «adorni d’ogni specie di pietre preziose» e le cui mura sono «costruite con diaspro»; «e le dodici porte sono dodici perle […]. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente» (Ap 21,18-21). Al centro «si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni» (Ap 22,2)
Una fioritura graduale nel corso dei secoli, lentamente sbocciata dal seme cristiano caduto nel terreno fertile su cui si incontrarono l’eredità romana e le culture germaniche. La medesima linfa fluiva dalle radici che si estendevano nelle cripte scavate dal crollo del mondo antico; nelle prime foglie intinte nell’oro bizantino e nei solidi e austeri tronchi del romanico; nelle mille ramificazioni gotiche, esili e aggraziate; fino ai frutti maturi e splendidamente opulenti, in cui si “scoppiava” la fecondità barocca. Finché la pianta non si ammalò.
Hans Sedlmayr (1896-1994) parla senza mezzi termini del «decorso della malattia», identificandone quattro fasi: dapprima un «raffreddamento delle forme» (che ancora ripetono quelle precedenti ma solo esteriormente) e l’«avversione per ciò che colpisce i sensi»; quindi «dal passato, il pensiero si rifugia nel presente» (un movimento degno di nota, dal momento che di solito si tende ad accusare qualcuno di rifugiarsi nel passato) e «dal grande e dal potente, si rifugia nel piccolo e nel vicino»; segue un «apparente guarigione», caratterizzata dal «risveglio dei sensi, del colore e del movimento»; infine – nel passaggio tra XIX e XX secolo – un «dissolvimento» delle forme e una «profonda frattura» (Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Roma 1983, pp. 260-263).
Tale è la potenza di quel seme che la pianta potrebbe persino tornare a irrobustirsi e portare nuovi fiori e frutti (sviluppatisi organicamente e non per improbabili innesti con qualche ramo estraneo). Ma i più preferiscono sassi e piante artificiali, col pretesto che questi sarebbero “espressione del nostro tempo”, come si suol dire. Chissà quando saremo pronti per una nuova “civiltà della fioritura”?
Sabato, 30 novembre 2024