di Oscar Sanguinetti
Il Sessantotto, come è stato scritto, è stato in essenza una rivoluzione “nelle tendenze”, che ha interessato, cioè, principalmente e primariamente i gusti, l’estetica, le abitudini e il “senso comune” dei popoli occidentali.
In questa propedeutica le arti hanno giocato un ruolo fondamentale. Sicuramente l’effetto delle arti visive — la pop art, volutamente urtante, e l’“optical art”, dominata dal forte contrasto fra bianco e nero — e delle loro discipline subordinate, come l’architettura, il design, la moda — chi, fra i più anziani, non ricorda le minigonne e gli innumerevoli e sgargianti “look” giovanili lanciati dalla “swinging London” degli anni 1960? — è stato enorme. Tuttavia credo che più forte ancora sia stato l’impatto della musica popolare, la pop music, prima il “rock”, quindi il “beat”, poi tutti i generi da questi derivati.
Perché proprio la musica? Com’è noto, tutte le giovani generazioni hanno una inclinazione per la musica — ma anche per la danza —, strumento di comunicazione immediata e veicolo principe di manifestazione e stimolazione dei sentimenti. Così pure, quanto meno dall’età del melodramma e del valzer, la musica è stata un veicolo di idee e di richiami rivoluzionari: basti pensare alle opere verdiane — fra le tante — Nabucco, Aida e Vespri siciliani. Tuttavia, solo nel secondo dopoguerra, grazie alla enorme diffusione dei mass-media sonori — televisioni, stazioni radio, grandi industrie discografiche, concorsi canori, rotocalchi specializzati — la musica esce dalle sale da concerto o dalle sale da ballo ed entra nelle case. Ne facilita la diffusione l’incessante sviluppo dei mezzi di riproduzione, di visione e di ascolto — dalle chitarre ai dischi “microsolco”, dai juke-box alle “audio-cassette”, dai televisori ai giradischi, dalle radio e dai radioregistratori portatili agl’impianti stereofonici ad alta fedeltà, nonché, più tardi, ai “walkman” e ai CD-Rom. La musica e la canzone vanno così a occupare uno spazio enorme nella vita quotidiana, nell’immaginario e negli stili di vita della gente comune: basti pensare alle imitazioni viventi, più o meno spinte, di Elvis Presley (1935-1977) — chi non ricorda la spassosa “imitazione dell’imitazione” fattane da Carlo Verdone nel film Gallo cedrone? —, ai fasti imperituri del Festival di Sanremo e i miliardi di copie di dischi, audio-cassette e CD-Rom venduti.
Così, anche e soprattutto, la “Rivoluzione” del Sessantotto marcerà al ritmo della musica.
Numerosissimi sono gli influssi della “musica ribelle” anglosassone — da Joan Baez (Joan Chandos Báez) a John Lennon (1940-1980) — e tanti sono i protagonisti della musica popolare legati, non solo per motivi anagrafici, al Sessantotto. Da noi come non citare fra i loro nomi — per limitarsi ai cantautori e scartando i complessi e gli autori della “canzone politica”, come Paolo Pietrangeli o Luigi “Ivan” della Mea (1940-2009) o Giovanna Salviucci Marini — quello di Luigi Tenco (1938-1967), di Rino Gaetano (1950-1981), di Francesco De Gregori, di Lucio Dalla (1943-2012), di Antonello Venditti, di Edoardo Bennato, di Roberto Vecchioni?
Ma i tre cantanti e autori che si possono assumere come simbolo della rivoluzione culturale del Sessantotto in Italia sono Fabrizio De André (1940-1999), che domina nelle tendenze, Francesco Guccini, che emerge in quella delle idee e dei fatti e, infine, ancora nei fatti — o meglio nella sfera del post-factum — e, poi ancora, circolarmente, nelle tendenze, Vasco Rossi.
Se De André canta l’utopia pacifistica e umanitaristica, l’individualismo libertario e anarcoide e Guccini canta l’ideologia e il movimento, ma soprattutto lo stile di vita di chi a essi s’ispira, Rossi è probabilmente il cantore del nichilismo morale ed esistenziale, in cui fatalmente sfocia l’impegno rivoluzionario delle origini, dopo quella “liquidazione del Sessantotto” — tralignato nel terrorismo omicida —, il cui simbolo sarà il film americano La febbre del sabato sera.
Non tutto nelle composizioni di questi tre “maestri” è cattivo, anzi tanti sono i “pezzi” di pregio e anche non pochi quelli dal contenuto condivisibile. Ma il fatto che la parte esteticamente pregevole finisca poi, senza alcun discernimento, “annegata” nell’altra, quella negativa e ideologica che prevale, fa dire in sostanza che si tratta di tre “cattivi maestri”, di tre “guide” esistenziali da cui prendere le distanze nell’estetica di ogni processo formativo che voglia costruire una persona coerente con la sua natura e “secondo il piano di Dio”.
Sabato, 28 luglio 2018