Il tema della convivialità è importante nei suoi romanzi, è segno di civiltà e manifestazione di legami solidi che aiutano nel cammino della vita.
di Susanna Manzin
La convivialità e la virtù dell’ospitalità hanno una parte rilevante nei capolavori di J. R. R. Tolkien (1892-1973). I romanzi dello scrittore inglese sono ricchi di episodi dove si parla di banchetti, pranzi, incontri nelle taverne, minuziose descrizioni di cibi e libagioni, cantine e dispense ben fornite, rendendo il tema della tavola un aspetto non trascurabile del racconto: ogni volta che gli eroi protagonisti della saga si fermano in qualche tappa del loro cammino, ci sono descrizioni di pasti molto interessanti, ad esempio quelli a casa di Tom Bombadil, di Beorn, di Elrond a Gran Burrone, nella reggia di Theoden a Rohan. Coloro che militano sotto lo stendardo del bene nella Terra di Mezzo si contraddistinguono sempre per il grande senso di ospitalità, un gesto importante che lega profondamente chi ospita e chi viene ospitato, segno di umanità e generosità, voglia di entrare in confidenza ed amicizia grazie alla condivisione di un banchetto curato nei minimi dettagli, anche nella bellezza dell’apparecchiatura e dell’ambiente, narrando storie e cantando antichi poemi.
Non è quindi un caso se gli Orchetti, barbari e crudeli, rivelano la loro malvagità anche per il fatto che non consumano pranzi: essi mangiano solo per nutrirsi, per soddisfare un’impellente ingordigia, sbranando e divorando carne cruda, anche umana, con avidità e in fretta, in piedi, senza nessun gusto e senza stile. Gollum, la misera creatura corrotta dall’Anello, mangia i pesci vivi appena pescati. Viene in mente l’aforisma del gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin: «Dimmi come mangi e ti dirò chi sei».
Gli hobbit sono famosi per il loro amore verso il cibo e la buona tavola. Il romanzo Lo Hobbit comincia con una cena di tredici nani e Gandalf a casa di Bilbo che, anche se preso alla sprovvista e preoccupato nel vedere svuotata la sua dispensa, accoglie gli ospiti inattesi come si deve perché «come anfitrione conosceva il suo dovere e lo compiva»[1]. La virtù dell’accoglienza generosa è segno distintivo del valore di una persona. Quando i nani prendono i loro strumenti musicali e cominciano a suonare e cantare melodie suggestive e commoventi, a poco a poco Bilbo si trasforma, ormai si sente parte di quella compagnia: il giorno dopo si troverà a correre via da casa per raggiungere i nani, senza fazzoletto, denaro, bastone. È ormai dentro l’avventura e tutto ha avuto inizio dalla generosa condivisione di una bella tavola.
Alla fine del romanzo, Thorin Scudodiquercia riconoscerà il valore di Bilbo con una bellissima lode: «In te c’è più di quanto tu non sappia, figlio dell’Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto»[2].
Anche Il Signore degli Anelli comincia con una grande cena, quella per il compleanno di Bilbo e Frodo, descritta nei minimi particolari: «Il banchetto fu estremamente piacevole, e li impegnò a fondo, per l’abbondanza, varietà, sontuosità e durata»[3]. Lungo il cammino, tra mille avventure, gli hobbit hanno più di un’occasione di godere di generosa e piacevole accoglienza, come quella a casa di Tom Bombadil e Dama Baccador: dopo la paura provocata dall’incontro con i Cavalieri Neri, Frodo e compagni apprezzano non solo il cibo e le bevande, ma anche l’atmosfera familiare, la pace di una casa pulita e ordinata, la cortesia dei padroni di casa che rasserenano gli hobbit, suscitando in loro la voglia spontanea di conversare, confidarsi. Frodo prende coraggio e pone al misterioso personaggio le domande che ha nel cuore. Tolkien dimostra così che una bella cena è l’occasione ideale per diventare amici, aprirsi alla confidenza, stimolare la conversazione ed entrare in profonda empatia. A Gran Burrone il banchetto nella grande sala da pranzo, raffinato ed elegante, è la dimostrazione di come il cibo porti sollievo all’anima, ci faccia sentire che non siamo soli, che c’è qualcuno che pensa a noi, che ci sostiene con la sua amicizia e vicinanza spirituale. Il cibo nei momenti difficili può dare conforto e speranza, è manifestazione di legami solidi che aiutano nel cammino della vita.
Era un’esperienza che Tolkien stesso sperimentava nelle serate che trascorreva al pub di Oxford con Clive Staples Lewis (1898 – 1963) ed altri amici scrittori, durante le quali nella piacevole e rilassata atmosfera del locale si scambiavano pareri e consigli sulle rispettive produzioni letterarie, incoraggiandosi a vicenda nella stesura di quelli che saranno i loro capolavori. Seduti a quei tavoli davanti ad una birra discutevano anche di cose alte e profonde e sarà proprio grazie a quel sodalizio e alle lunghe conversazioni con Tolkien che Lewis maturerà la sua conversione al cristianesimo.
Il culmine della simbologia del cibo in Tolkien si raggiunge con il lembas. Quando la Compagnia dell’Anello parte dal reame elfico di Lothlorien, gli Elfi preparano l’equipaggiamento per il viaggio: «Gran parte del cibo consisteva in dolci estremamente sottili, di farina infornata, bruni all’esterno e all’interno di un bianco cremoso»[4]. Il Nano Gimli, sospettoso verso tutto quello che viene dagli Elfi, sgranocchia un pezzettino di quel biscotto ma lo trova molto gustoso e lo divora avidamente. Un Elfo lo avvisa, divertito, che quello che ha mangiato è più che sufficiente per un intero giorno di marcia. «Noi le chiamiamo lembas o pan di via e sono più nutrienti di qualsiasi cibo fatto dagli Uomini. Uno solo di essi basta a sostentare un viaggiatore per un’intera giornata di faticoso cammino, fosse anche esso uno degli alti Uomini di Minas Tirith»[5]. In vari episodi vengono descritte le qualità del lembas, la sua capacità di dare non solo vigore fisico ma anche conforto spirituale ai viaggiatori. Nel bel mezzo della battaglia contro gli orchetti, Merry e Pipino si rifocillano con qualche pezzetto di lembas: «Il sapore fece rivivere nella loro memoria splendidi volti, suoni di risa e cibi prelibati di giorni felici ormai lontani.»[6]
Nella durissima ascesa a Monte Fato, Frodo e Sam trovano forza in quelle gallette: «Il lembas aveva una virtù senza la quale si sarebbero già da tempo lasciati morire. Non soddisfaceva la gola ed a volte la mente di Sam si empiva d’immagini di cibo e del desiderio di semplici carni e di pane. Eppure quel pan di via degli Elfi aveva una potenza che aumentava quando i viaggiatori lo consumavano da solo senza mischiarlo ad altri alimenti. Nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale.»[7]. Il dono degli Elfi è un dono soprannaturale. Sono evidenti i riferimenti all’Eucarestia, alla sua capacità di donare sostegno all’animo e forza di volontà. Tolkien stesso non smentisce questa interpretazione data da molti lettori, affermando con chiarezza che «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica»[8] e i tanti dettagli in armonia con la nostra fede che si possono trovare nel romanzo ne sono la dimostrazione. Non poteva mancare quindi un’immagine dell’Eucarestia, ricordando le sue splendide parole scritte in una lettera indirizzata al figlio Michael: «Al di là di questa mia vita oscura, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra»[9].
Sabato, 6 luglio 2024
[1] J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, ed. Adelphi, 1973, pag. 20.
[2] Ibidem, pag. 324.
[3] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli. Trilogia.Ed. Rusconi, 1997, pag. 56.
[4] Ibidem, pag.458.
[5] Idem.
[6] Ibidem, pag.560.
[7] Ibidem, pag. 1117.
[8] J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914 – 1973, ed. Rusconi 1990, pag. 195
[9] Ibidem, pag. 63.