di Michele Brambilla
Nell’udienza generale del 3 giugno Papa Francesco introduce la figura di Abramo con queste parole: «c’è una voce che risuona all’improvviso nella vita di Abramo. Una voce che lo invita a intraprendere un cammino che sa di assurdo: una voce che lo sprona a sradicarsi dalla sua patria, dalle radici della sua famiglia, per andare verso un futuro nuovo, un futuro diverso». È la voce di Dio, «e Abramo parte. Ascolta la voce di Dio e si fida della sua parola. Questo è importante», sottolinea il Pontefice: «si fida della parola di Dio. E con questa sua partenza nasce un nuovo modo di concepire la relazione con Dio», che vede l’instaurarsi di un rapporto personale tra Creatore e creatura, l’Alleanza, basato sulla fede fiduciale.
«Abramo», prosegue il Pontefice, «è dunque l’uomo della Parola. Quando Dio parla, l’uomo diventa recettore di quella Parola e la sua vita il luogo in cui essa chiede di incarnarsi. Questa è una grande novità nel cammino religioso dell’uomo: la vita del credente comincia a concepirsi come vocazione, cioè come chiamata, come luogo dove si realizza una promessa; ed egli si muove nel mondo non tanto sotto il peso di un enigma, ma con la forza di quella promessa, che un giorno si realizzerà» pienamente in Gesù, come testimonia il Nuovo Testamento. «Abramo credette alla promessa di Dio», prosegue il Papa: «Credette e andò, senza sapere dove andava – così dice la Lettera agli Ebrei (cfr 11,8). Ma si fidò» del Signore e diede origine al popolo eletto, la stirpe del Messia. La Promessa per eccellenza poté così entrare nella storia degli uomini e redimerla.
«Leggendo il libro della Genesi», afferma ancora il Santo Padre, «scopriamo come Abramo visse la preghiera nella continua fedeltà a quella Parola, che periodicamente si affacciava lungo il suo cammino», come sperimentano i cattolici di ogni secolo. Il Papa fa un esempio sorprendente: «questa esperienza di Abramo viene testimoniata anche da uno dei testi più originali della storia della spiritualità: il Memoriale di Blaise Pascal (1623-62). Esso comincia così: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo”». Non capita tutti i giorni sentire un Pontefice che viene dalla Compagnia di Gesù citare colui che, con le Lettere provinciali (1657), divenne un acerrimo nemico dell’ordine gesuita, ma al Santo Padre interessa che «questo memoriale, scritto su una piccola pergamena, e trovato dopo la sua morte cucito all’interno di un vestito del filosofo, esprime non una riflessione intellettuale che un uomo sapiente come lui può concepire su Dio, ma il senso vivo, sperimentato, della sua presenza», perché il Dio cristiano «non è il Dio astratto o il Dio cosmico, no. È il Dio di una persona, di una chiamata, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio che è certezza, che è sentimento, che è gioia».
Allora, «fratelli e sorelle, impariamo da Abramo, impariamo a pregare con fede: ascoltare il Signore, camminare, dialogare fino a discutere», come fece talvolta il patriarca biblico. «Dirò anche una cosa che sembra un’eresia», azzarda il Pontefice: «tante volte ho sentito gente che mi dice: “Sa, mi è successo questo e mi sono arrabbiato con Dio” – “Tu hai avuto il coraggio di arrabbiarti con Dio?” – “Sì, mi sono arrabbiato” – “Ma questa è una forma di preghiera”. Perché solo un figlio è capace di arrabbiarsi con il papà e poi re-incontrarlo».
Giovedì, 04 maggio 2020