Da Avvenire dell’11/07/2021
Ho recentemente ascoltato, letta dalla voce amica di Cesare Cavalleri in una sua traduzione, la bellissima poesia Il rimorso, di Jorge Luis Borges. La poesia si costruisce intorno a un verso che si ripete: «Ho commesso il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere: non sono stato felice». Queste parole hanno risuonato in me a lungo, aprendo la strada ad alcune domande: com’è possibile associare il concetto di infelicità a quello di colpa?
Non essere felici non è forse una condizione ingrata che dipende dalla sfortuna? Non è qualcosa che dobbiamo subire perché la vita è stata avara con noi e non ci ha regalato le condizioni che avrebbero permesso la nostra felicità? La parola ‘peccato’ rimanda alla oggettiva presenza di una responsabilità personale; nel peccato si concreta un male oggettivo, ma perché sia peccato bisogna che a questo male sia dato il nostro consenso.
Soprattutto poi se parliamo di qualcosa di grave («il peggiore dei peccati»), diventa evidente che non si tratta solo di atteggiamenti di omissione, ma piuttosto di un atteggiamento attivo, quasi un rifiuto di vedere e perseguire il bene. Dobbiamo dunque interrogarci sulla felicità e sulla sua possibilità concreta nella nostra vita: una felicità che ci viene qui suggerita come un vero compito, non solo possibile ma addirittura doveroso. Ma come si fa a essere felici? Mi vengono in mente, frutto di un lungo lavoro di ascolto, le tante infelicità che ho incontrato; ci sono in primo luogo molte infelicità certamente incolpevoli, come quelle dei bambini, e quelle profonde e inevitabili degli adolescenti, anche sani: crescere è scoperta ma anche fatica, e nel percorso verso la propria identità si incontrano momenti di buio che possono apparire talvolta insuperabili. L’infelicità dell’adulto però è un’altra cosa, e l’esperienza ci insegna che non sono tanto gli eventi oggettivi a generarla, quanto piuttosto la loro risonanza in noi: il modo in cui leggiamo ciò che ci accade, la narrazione che sappiamo fare a noi stessi degli accadimenti della nostra vita, il senso che sappiamo dare loro, conta più dei fatti in se stessi; di fronte a eventi molto simili le persone reagiscono in modo diverso, che dipende dalle risorse interiori che ciascuno riesce ad attivare.
Lo psicoanalista Viktor Frankl sostiene che è necessario uscire dalla logica che la felicità dipenda dal successo (amore, salute, denaro) e l’infelicità dall’insuccesso, perché questo modo di affrontare la vita ci rende fragili e spaventati, sempre in balia di ciò che di male potrebbe succedere. Dobbiamo sviluppare invece due diverse abilità: quella di porci come protagonisti attivi di ciò che ci accade («valori di atteggiamento») e quella di porre il baricentro al di là di noi, su ciò che ci sta a cuore («autotrascendenza »). Soddisfare i nostri bisogni non è sufficiente ad appagarci; più che a qualcosa che riempie, la felicità assomiglia piuttosto a qualcosa che scorre: la sperimentiamo come il fluire di un’energia, come un movimento che parte dal cuore, dalla mente, dall’anima, e che si dirige verso il mondo fuori di noi; la sperimentiamo come un eccedere della vita. Dobbiamo dunque spenderci, non preservarci o entrare in una triste contabilità di dare/avere; concentrarci su noi stessi comporta sempre stagnazione: quella terribile sensazione grigia che prende il sopravvento quando smettiamo di spenderci per qualcosa o per qualcuno.