Di Sergio Belardinelli da Il Foglio del 02/02/2022
Non ho nulla contro la cosiddetta famiglia tradizionale, quella per intenderci con la madre ad accudire casa e figli e il padre fuori a provvedere alle necessità materiali della famiglia; ne vedo anzi le importantissime funzioni individuali e sociali; ma c’è un suo aspetto che considero nefasto: la lontananza affettiva del padre dai figli. Forse è per questa lontananza che la parola padre evoca in noi soprattutto il padrone e il patrimonio e assai meno il significato del proteggere e dell’avvicinarsi, entrambi derivati, secondo il grande filologo tedesco Jost Trier, dall’idea di pater in quanto “recinto” e quindi “recintare”. In quest’ultima accezione il concetto di padre richiama un preciso riferimento alla conservazione elementare della vita (avvicinarsi è anche accoppiarsi e quindi generare la vita) e alla protezione necessaria ad assicurare l’esistenza del nascituro. Ma si tratta di riferimenti che la nostra cultura non sembra prendere in considerazione. Dal momento in cui il padre ha lasciato casa e famiglia per andare a vendere fuori la sua “forza lavoro” in cambio dei mezzi necessari al sostentamento di moglie e figli, le sue originarie funzioni di vicinanza, protezione e guida sono state assunte da altre figure. La madre è diventata sovrana della casa, mentre gli insegnanti hanno assunto la funzione pedagogica e lo stato la funzione protettiva. Il padre è stato ridotto a una figura di sfondo, oscillante tra il dispotico e il latente e comunque lontana. Ragion per cui oggi ci si allarma un po’ nel momento in cui la tecnologia della riproduzione sembra volerlo rimuovere anche dalla sua funzione procreativa, ma non si dà gran calcolo al fatto che egli sia stato già rimosso dalla funzione affettiva collegata al proteggere.
Anche quando si guarda con preoccupazione alla crisi del senso della genitorialità, si registra per lo più la tendenza a considerare soprattutto il ruolo della madre, molto meno quello del padre. Se questi rientra nel gioco affettivo con i figli, non è perché ci sia una nuova consapevolezza di questo rapporto, ma semplicemente perché bisogna sgravare la madre che lavora dal peso delle sue funzioni, almeno finché non riuscirà a provvedervi lo stato, quale grande equivalente funzionale di una funzione, quella paterna, che invece non ha equivalenti funzionali di sorta.
Come ebbe a scrivere oltre settant’anni fa il già nominato Jost Trier, esiste in effetti qualcosa che può essere chiamato “elemento paterno” e che lega insieme l’autorità del padre, quella dello stato e addirittura quella del Dio cristiano (anche se ultimamente pare che pure lui sia diventato madre), tuttavia non si può non vedere il pericolo “caratterizzato dal fatto che uno stato assolutamente non paterno ha iniziato a divorare tanto il padre terreno che quello celeste, ed è visibilmente deciso a sostituirsi a entrambi come l’unica forza superstite”. A distanza di trent’anni da queste parole, forse senza nemmeno conoscerle, Christopher Lasch ne riprenderà più o meno il senso, denunciando come l’intera vita degli individui sia ormai sottoposta alla direzione statale, mentre si affievolisce sempre di più la mediazione della famiglia e di altre istituzioni, come la scuola, alle quali una volta era delegata la cosiddetta socializzazione dei nuovi venuti. Un incombente statalismo i cui nodi stanno comunque venendo al pettine. Infatti né lo stato, né le madri, né le altre innumerevoli guide che abbiamo escogitato si sono dimostrati in grado di sostituire l’affetto, la guida e l’autorità paterni. Ne fanno fede il disagio crescente dei giovani e la crisi della stessa autorità dello stato. Con le parole di Lasch, “la fuga del padre nel mondo del lavoro ha privato i figli non soltanto di un modello di ruolo, ma anche di un super-io; o per essere più precisi, ne ha trasformato il contenuto facendo sempre più prevalere gli elementi arcaici, istintuali e suicidi” e rendendo “difficile come non mai per un figlio diventare un adulto autonomo”.
Ovviamente queste parole di Lasch potrebbero anche suonare esagerate, ma non si possono non vedere alcuni segnali di evidente disagio giovanile riconducibile più o meno proprio all’assenza del padre, della quale sembra che nessuno voglia rispondere. Ad ogni buon conto, per capire il disagio, anzi la paura, prodotta sui figli da questa assenza, che è insieme lontananza e inaccessibilità, esiste nella nostra cultura un documento d’importanza decisiva e di bellezza inarrivabile: la Lettera al padre di Franz Kafka, scritta nel 1919 e ancora attualissima. Non starò a commentarla in questa sede, ma è precisamente a questa lettera che penso ogni volta che sento parlare della fuga dei giovani nella realtà virtuale o di violenza giovanile. Incapaci di introiettare l’autorità, essi finiscono per chiudersi rispetto al mondo reale o per proiettare verso l’esterno tutti i loro impulsi proibiti. In questo modo la realtà, lungi dall’essere qualcosa di familiare, cambia continuamente forma, prepara ogni volta incredibili sorprese, fino a trasformarsi in un incubo. Kafka docet, appunto.