L’invasione imminente e il gioco mondiale
di don Stefano Caprio
Tutto il mondo trattiene il respiro di fronte alla possibilità di una imminente invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sarebbe questo l’esito catastrofico del conflitto in atto dal 2014, quando la Russia riuscì ad annettersi la penisola di Crimea e a sobillare le provincie ucraine del Donbass, con le capitali Lugansk e Donetsk, istigandole a un estenuante scontro separatista che ha già procurato circa 15mila morti. In questi anni sono state effettuate diverse manovre militari da parte di entrambi i Paesi, lungo il confine da Kharkiv al Donbass e sul Mar Nero, con una continua escalation della minaccia di passare dalla guerra “ibrida” a bassa intensità a uno scontro totale, che inevitabilmente coinvolgerebbe non solo i due belligeranti, ma anche le altre nazioni direttamente interessate (Bielorussia, Polonia, Moldavia, Romania) e tutte le superpotenze mondiali, dall’Europa agli Stati Uniti e alla Cina. Oltre centomila soldati russi sono attualmente ammassati presso i confini ucraini, e gli stessi ucraini li attendono con le armi in pugno.
Gli esperti militari ritengono piuttosto improbabile l’accendersi di uno scontro catastrofico, che nessuno dei due sarebbe in grado di sostenere economicamente e socialmente, per non parlare delle conseguenze sanitarie di una guerra in periodo di piena pandemia da Covid-19, che in entrambi i Paesi continua a mietere vittime a migliaia senza bisogno di sparare un colpo. La mobilitazione dei due eserciti costituisce di per sé una prova di forza, in cui la Russia di Putin ha più volte ammonito a “non superare la linea rossa”, che significa soprattutto la possibile integrazione dell’Ucraina nella Nato, la quale ci farebbe tornare ai tempi della “guerra fredda”, con schieramento di armi tattiche nucleari e minacce di distruzione totale a livello planetario.
La questione della Nato, l’alleanza difensiva anti-sovietica del Novecento, è all’ordine del giorno fin dalla fine del regime comunista. Nel 2004 ci fu il tentativo italiano, proposto dal governo Berlusconi al G8 di Pratica di Mare, di coinvolgere la stessa Russia nella Nato, per farla diventare un’alleanza americano-europea che chiudesse il cerchio dall’oceano Atlantico al Pacifico, controllando di fatto tutta la circonferenza del globo e prevenendo l’impetuosa avanzata economico-militare della Cina, che si è puntualmente verificata negli anni successivi. La Nato inclusiva non fu realizzata per la netta opposizione dei Paesi dell’Europa orientale, che si erano da poco liberati dal giogo moscovita (i baltici Estonia, Lituania, Lettonia, oltre a Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Moldavia, Romania, fino ai Balcani di Bulgaria, Slovenia, Croazia) e progressivamente si inserivano nella Comunità europea. L’ultimo, e il più popoloso, di questi Paesi è l’Ucraina, il più legato alla “madre Russia” insieme alla Bielorussia, ma anche quello con il conto più salato da presentare agli ex-padrini del Cremlino.
Mentre si valutano le possibili varianti delle manovre delle prossime settimane, gli ucraini si preparano al peggio. Il 20 dicembre a Kiev si tengono le trattative tra i presidenti di Ucraina, Polonia e Lituania, il cosiddetto “triangolo di Lublino”, che rievoca le antiche componenti della “grande Polonia” che per secoli contese alla Russia il dominio dell’Europa orientale. Durante la visita di Andrzej Duda e Gintanas Nauseda, insieme a Volodymyr Zelenskyj verranno testati i sistemi di allarme della popolazione in preparazione a possibili attacchi aerei, mentre già sono stati verificati i rifugi antiaerei e antiatomici, risalenti ancora ai tempi dell’Urss. Già negli anni scorsi erano stati rimessi in funzione, anche se molti di essi sono ancora occupati da depositi, negozi e saloni di bellezza. Allo stesso tempo si inizia una campagna informativa allo scopo di non terrorizzare la popolazione quando cominceranno a risuonare gli allarmi di prova contro gli attacchi aerei. Gli ucraini sperano che gli alleati europei capiscano quanto sia seria la situazione e chiedono ai vicini di sostenerli in questo appello. I sindaci delle città principali, come quello della capitale Vitalij Kličko, spiegano che «ci stiamo preparando a una possibile situazione di emergenza, e noi sindaci organizziamo la difesa civile, attivando anche la chiamata dei riservisti». Particolare attenzione viene rivolta alle mosse del nuovo governo della Germania, di cui ancora non si conoscono le direttive in politica estera. Come ribadisce Kličko, «noi siamo un paese europeo, che ha bisogno oggi più che mai del sostegno dell’Europa, di cui siamo l’autentico centro geografico».
Il 13 dicembre si è tenuta la prima conversazione telefonica tra i ministri degli Esteri di Ucraina e Germania, Dmitrij Kuleba e Annalena Baerbok, che hanno discusso la situazione alle frontiere con Russia e Bielorussia e della necessità di ripristinare il formato della “Normandia” del giugno 2014, con inglesi e americani a fare da mediatori (francesi e tedeschi come osservatori), nonché il protocollo di Minsk del settembre 2014, sotto il controllo dei Paesi dell’Osce, basato sul principio «prima la sicurezza» nella regolazione del conflitto, a partire dalle zone calde del Donbass. Questa linea potrebbe infine portare a una divisione pacifica delle zone contese, ma solo se verranno osservate le condizioni di sicurezza richieste da Kiev, a partire dal ritiro totale dei soldati russi, che più o meno apertamente stanno già combattendo all’interno dei confini ucraini. In questo senso andrebbero anche le raccomandazioni del presidente USA Joe Biden, che dopo il colloquio video con Vladimir Putin ha chiesto che gli accordi di Minsk «vengano applicati nell’ordine in cui sono scritti», concedendo subito uno speciale status di autonomia alle repubbliche di Lugansk e Donetsk, non riconosciute da Kiev, mentre i loro cittadini già godono del passaporto russo concesso da Mosca. Gli ucraini, comunque, confidano che gli americani non stringeranno accordi con i russi alle loro spalle, anche se il coinvolgimento di Washington non sarà più intenso di quanto ottenuto finora, rimanendo a fare da contraltare a Mosca. I cinesi, dal canto loro, hanno già fatto sapere che rimarranno neutrali in ogni variante del confronto tra due Paesi entrambi “amici” come Russia e Ucraina.
Le due facce della medaglia slava orientale
I giochi strategici e militari sono tutti in pieno svolgimento, e servirebbe una lunga disanima per illustrarne i tanti dettagli, compresi gli echi di queste vicende nei vari paesi di Europa e Asia e non solo. Nell’insieme tutto questo ripropone un tema in realtà molto antico, risalente almeno al Medioevo, se non proprio alle vicende degli imperi di alcuni millenni passati. Il confronto tra Oriente e Occidente è in qualche modo la chiave per comprendere l’evoluzione delle civiltà, determinate da fattori etnici, religiosi, politici e geografici.
Gli slavi sono la terza componente dell’Europa, dopo i classici greco-romani e i barbari “romanizzati” franchi e sassoni. La loro stessa composizione riflette questa incertezza dell’orientamento di quella “terra madre” della civilizzazione che si è sempre considerata l’Europa, ombelico del mondo, ma in realtà appendice geografica del continente asiatico. Metà dei popoli slavi scrive con l’alfabeto latino (Polonia, Cechia, Slovacchia, Slovenia, Croazia), mentre l’altra metà adotta il cirillico (Russia, Bielorussia, Ucraina, Bulgaria, Serbia), pur essendo di fatto un unico ceppo etnico e linguistico. Tra gli slavi occidentali e orientali esistono incancellabili memorie comuni e inestricabili rancori reciproci di cui sarebbe troppo lungo e complesso spiegare le dimensioni. Insieme agli slavi si incrociano in questi Paesi molti altri popoli: latini come i romeni, o ugro-finnici come magiari e lituani, per non parlare del crogiolo del Caucaso e dell’Asia centrale, i “cortili interni” del mondo sovietico, sempre in rapporti dinamici e contraddittori con gli slavi e oggi a loro volta pressati dalle tensioni provenienti dall’Afghanistan. E alle spalle di questo mondo turbolento c’é l’occhio vigile dei turchi, i concorrenti storici dei russi nelle questioni ereditarie dell’impero bizantino, che oggi ripropongono la loro visione neo-ottomana.
E in questo quadro, senza confini e senza logiche, c’è un territorio che costituisce il campo di gioco e di scontro per tutti i popoli e tutte le ambizioni. Si chiama Ucraina, un nome che non a caso significa “presso il confine”, perché questa era la definizione che i russi davano agli accampamenti dei cosacchi. L’Ucraina è una nazione indipendente da solo trent’anni, dopo la fine dell’Urss, un tempo che nella coscienza del mondo slavo vale come una decina di minuti. Per secoli questa terra è sempre rimasta soltanto il Confine, come la stessa città di Kiev, che deve il suo nome al “passaggio di Kyj”, il mercante variago che costruì un ponte sul Dnepr dando inizio alle carovane commerciali della “Via dai Variaghi ai Greci”, con cui si portavano le pellicce e la legna per riscaldare i greci e i romani, la ragione sociale di tutto il mondo slavo orientale.
Kiev è la «madre di tutte le città russe», il luogo del Battesimo cristiano del principe Vladimir nel 988, che inserì la Rus’ antica nel novero delle civiltà più progredite, l’ultima del primo millennio e la prima del nuovo. Questa definizione venne poi trasferita a Mosca, che prese il testimone dal primo Stato russo solo qualche secolo dopo, quando ormai le terre eurasiatiche erano dominate dai tataro-mongoli eredi di Gengis Khan, in cui molti oggi vedono il vero predecessore di Vladimir Putin. È questo il primo storico motivo di conflitto tra ucraini e russi: i primi si considerano gli unici veri eredi della Rus’ primitiva, mentre Mosca è considerata una potenza asiatica erede dei Khan. Quando il comandante Batu, inviato del Gran Khan, invase Kiev nel 1240 radendola al suolo, Mosca era una semplice stazione di posta indistinguibile dal fiume che la attraversa, che noi chiamiamo Moscova per comodità, quando in effetti acqua e terra hanno lo stesso nome – Moskva. I moscoviti approfittarono della scomparsa di Kiev, che di fatto non rinacque fino al 1600, accumulando denaro grazie ai buoni rapporti con i tatari e divenendo la vera pancia del mondo russo, da sfamare senza sosta, assorbendo tutte le energie degli altri principati e degli altri popoli, come ha fatto anche ai tempi sovietici e fino ad oggi, affiancata nei tempi moderni dalla capitale del nord, San Pietroburgo, la città natale di Putin e del patriarca ortodosso di Mosca, Kirill.
Mentre Mosca cresceva fino a diventare la vera capitale dell’Eurasia, i principati più occidentali e indipendenti si legavano alle alleanze occidentali, fino a gravitare nel corpo dinamico del regno di Lituania e Polonia, poi chiamata Reczpospolita, il “regno delle città”, che dal mar Baltico raggiungeva il mar Nero, i due sbocchi al mondo delle nuove terre, tanto bramato dalla stessa Mosca. Così le regioni ucraine più europee, la Volynia e la Galizia, si sono identificate con la Polonia e l’Austria più che con la Russia da cui discendono, e dalla città di Leopoli sono passati tutti: ebrei, tedeschi, turchi e genovesi, russi e greci, chiamandola in tutti i modi e con tutti gli accenti: L’vov, Lviv, Lemberg e Leopoli appunto, dal nome dell’imperatore austro-ungarico. In questi territori maturò, poi, la scelta dell’Unione religiosa con la Roma papale, voluta dai re polacchi e dai missionari gesuiti a fine Cinquecento come contraltare alla pretesa egemonica di Mosca, che volle farsi Patriarcato pretendendo l’eredità sia della Chiesa che dell’impero bizantino.
La cultura e la nazione ucraina, profezia delle angosce moderne
La mano dei gesuiti non si limitò a orientare le scelte degli “uniati”, gli ucraini cattolici di rito bizantino che anche oggi sono la più significativa realtà cattolica dell’Oriente cristiano. La scuola teologica e universale dei gesuiti, che ha generato la cultura universitaria di tutta l’Europa, coincise anche con la rinascita di Kiev, che nei primi decenni del Seicento rifiorì intorno allo storico Monastero delle Grotte e all’Accademia di Petr Mogila, il metropolita ortodosso illuminato che proponeva una grande sintesi della cultura occidentale con quella orientale, dando poi dato vita anche a tutte le scuole moderne della Russia. Allora ricominciò anche il confronto storico e ideologico tra Kiev e Mosca, con la seconda che, infine, sottomise la prima nella «pace eterna» coi polacchi del 1682.
Il mitico iniziatore della storia propriamente “ucraina” fu l’atamano dei cosacchi Bogdan Khmelnickij a metà del Seicento, in quello che i russi chiamano il «periodo dei Torbidi» in cui si erano infranti i sogni universali di “Mosca Terza Roma”, vagheggiati nel Cinquecento dal primo zar Ivan il Terribile, che aveva ispirato perfino l’impero britannico di Elisabetta I. Khmelnickij era un fedele servitore del re di Polonia, a cui si ribellò dopo congiure e tradimenti di palazzo. Riuscì a guidare le schiere anarchiche e semi-nomadi dei cosacchi, il “popolo libero” costituito da slavi, turchi e asiatici che si ribellavano alle varie forme di servitù della gleba e non riconoscevano alcuna autorità né civile, né religiosa. Proprio nelle zone ora contese da russi e ucraini, i cosacchi spostavano la loro “capitale mobile” di Seč nelle isole più impenetrabili dei fiumi e delle paludi, sconfissero i polacchi e si consegnarono ai russi nella speranza, poi in gran parte delusa, di godere della libertà nei propri territori “ucraini” di confine. La divisione delle terre a destra e a sinistra del Dnepr (Pravo- e Levo-Berežnye) continuò a lungo, nelle tante guerre tra russi e polacchi, e tra russi e turchi, senza che i cosacchi ucraini riuscissero mai a trovare veramente la pace e la libertà che cercavano. Lo zar di Mosca, espressione della nuova dinastia seicentesca dei Romanov, chiamava se stesso il padre «di tutte le Russie», intendendo la Grande Russia di Mosca, la Russia Bianca (Ruthenia Alba sempre innevata, da cui venne il nome “Bielorussia”) e la “Piccola Russia” (Malorossija, come ancora oggi i russi chiamano la parte orientale dell’Ucraina), confusa anche con la “Russia Nera”, quella delle “terre nere” fertili della Russia meridionale (oggi il colore serve alle polemiche dei russi contro i «fascisti ucraini»).
Fu la zarina russo-tedesca Caterina la Grande che a fine Settecento mise fine dopo tre secoli al conflitto con il regno di Polonia, che fu spartito a più riprese con prussiani e austriaci. È da questo momento che nei documenti si comincia a usare sistematicamente il nome di “Ucraina” per indicare quella parte della Polonia ormai integrata nei territori dell’impero di Mosca, la grande potenza che pochi anni più tardi spense le velleità di Napoleone sull’intera Europa, quell’Europa che al Congresso di Vienna si costituì come «Santa Alleanza» dall’intuizione romantica dello zar vincitore Alessandro I, che voleva l’unione dei cattolici austriaci con i protestanti prussiani sotto la guida degli ortodossi russi: l’Europa ecumenica del Cristianesimo universale. La visione di Alessandro finì presto nel nulla, e lo stesso Alessandro morì nel 1825 in circostanze misteriose, per alcuni ritirandosi in un eremo, il mitico starets Fëdor Kuzmič. L’impero russo divenne «gendarme d’Europa» sotto Nicola I, con le repressioni dei rivoltosi Decabristi e dei primi ingenui socialisti, come il giovane Fëdor Dostoevskij. Soprattutto, Nicola impose una sistematica russificazione di tutti i territori dell’impero eurasiatico, e a farne le spese più di tutti furono proprio i parenti più stretti, gli ucraini.
Il personaggio più paradossale di questo periodo, chiamato il “secolo d’oro” della cultura russa, fu un giovane contadino della Malorossija, come lui stesso amava ricordarla: Nikolaj Gogol’, che giunse a San Pietroburgo e fu adottato dai più grandi poeti e scrittori, come Puškin e Žukovskij, fino a diventare l’espressione più autentica dell’anima russa. Quando Gogol’ concluse a Roma la stesura della prima parte delle Anime Morte, il romanzo più russo in assoluto, scese a piazza di Spagna a festeggiare con balli ucraini intorno alla Fontana di Trevi. Era la Russia che cercava se stessa, e un altro grande ucraino pietroburghese, Taras Ševčenko, decise di dedicarsi alla “causa ucraina”: visitò Kiev per la prima volta a metà Ottocento e si unì ai sogni della “Società di Cirillo e Metodio”, un gruppo che in nome dei maestri storici degli slavi voleva finalmente costruire una nazione ucraina. Il sogno fu brutalmente soffocato dagli zar e Ševčenko passò il resto dei suoi giorni nell’esilio siberiano, da cui le sue poesie raggiunsero comunque i cuori dei “fratelli ucraini” che ancora oggi lo considerano il vero “padre della patria”.
Le tante repressioni russe nelle terre ucraine, di cui abbiamo ricordato solo alcuni passaggi, dovevano riflettersi anche nel lungo inverno sovietico. I russi liquidarono la Repubblica socialista dell’Ucraina, che pretendeva di farsi la propria rivoluzione, e in settant’anni calpestò in ogni modo i tentativi ucraini di trovare una propria via. Negli anni Trenta fu Stalin a sterminare le aspirazioni dei contadini ucraini con una carestia scientificamente organizzata, il cosiddetto Holodomor, che ancora oggi attende piena documentazione storica. Durante l’invasione nazista del 1941-1943 gli ucraini scelsero di appoggiare i nazisti non certo per adesione al razzismo hitleriano, ma soprattutto per affrancarsi dai sovietici. Dopo la guerra il dittatore georgiano fece liquidare la Chiesa greco-cattolica, ritenuta indomabile, unendola forzatamente a quella ortodossa di Mosca nello pseudo-sinodo di Leopoli del 1946, organizzato dal “patriarca di Stalin” Alessio I insieme al segretario del partito a Kiev, quel Nikita Khruščev che in seguito denunciò i «crimini di Stalin» per riprendere la persecuzione sistematica della Chiesa. L’ucraino Khruščev conosceva troppo bene i suoi compaesani, e per rafforzare l’identità russa in Ucraina pensò bene di “donare” alla repubblica Sovietica di Kiev la penisola di Crimea, “terra santa” dei russi su cui si è poi costruita tutta l’ideologia putiniana degli ultimi anni, intesa come rinascita della Grande Russia a spese proprio degli ucraini.
Quando Putin si rivolse trionfante alla folla riunita davanti al Cremlino, il 18 marzo del 2014, per festeggiare l’annessione della Crimea, il suo grido esprimeva questa coscienza a lungo repressa, dopo la fine ingloriosa dell’impero sovietico: «la Crimea è nostra! ». Egli intendeva celebrare il ritorno alla Russia delle terre lasciate in mano ai “popoli infedeli” dell’Occidente, la nuova affermazione della “verità ortodossa” di una Russia chiamata a salvare il mondo dalla perdizione. L’esaltazione di questo nazionalismo ortodosso universale, a dire il vero, non è durata molto a lungo e oggi gli stessi russi temono che una nuova guerra possa annientare definitivamente l’economia e la vita sociale del Paese, sempre più oppresso anche da forme autoritarie di imposizione dell’ideologia di Stato come ai tempi sovietici.
Non si può neppure affermare che gli ucraini siano a loro volta entusiasti di annettersi all’Occidente europeo, da cui hanno ricevuto tante delusioni nel passato. Gli ortodossi di Kiev si sono rivolti nel 2018 al patriarca di Costantinopoli per affermare la propria autonomia, col risultato di confondere ancora di più le acque anche a livello ecclesiastico perché si è creata una nuova rottura tra la Seconda e la Terza Roma, mentre la Prima Roma papale non sa bene a quale dei tanti “fratelli ortodossi” rivolgersi senza offendere gli altri e perfino i propri fedeli.
Ucraini e russi sono davvero membri di un popolo comune, al punto che è difficile trovare una famiglia che non abbia parenti da una parte all’altra del confine su cui oggi si ammassano le truppe. Forse la loro riconciliazione potrebbe essere profezia di una più grande unione dei popoli d’Europa, anch’essi legati e intrecciati da comuni conquiste e reciproci rancori. La guerra e l’invasione non farebbero che perpetrare la grande incapacità di riconoscere se stessi, il problema storico dei russi e degli slavi, e oggi dell’intero mondo globalizzato.
Domenica, 19 dicembre 2021