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La morte anonima

28 Novembre 2020 - Autore: Stefano Chiappalone

Sin dalle epoche più remote, la sepoltura indica la presenza e la civiltà umana. L’anonimato e la standardizzazione dei simboli della morte sono sintomi di un’epoca che ha rinunciato a porsi domande su di essa.

di Stefano Chiappalone

Vienna, 16 luglio 2011. Un colpo sulla porta. Dentro la cripta il frate chiede chi stia bussando e una voce dall’esterno risponde, a nome dell’illustre defunto, snocciolandone tutti i titoli nobiliari, così numerosi da doversi arrendere con un «etzetera etzetera». Ma nonostante il profluvio araldico, il frate replica: «Wir kennen ihn nicht» («Non lo conosciamo»). Altri colpi sulla porta, cui segue la stessa domanda e una risposta più contenuta, ma pur sempre altisonante. Ancora una volta il frate è irremovibile: «Wir kennen ihn nicht». Infine, nuovi colpi e una nuova risposta: «Otto, ein sterblicher, sündiger Mensch!» («Otto, un mortale, un peccatore»). Finalmente si aprono le porte della Kapuzinergruft, estrema dimora dell’arciduca Otto d’Asburgo (1912-2011) che si ricongiunge con il resto della dinastia.

Il raro e suggestivo rito della sepoltura degli Asburgo, svoltosi in tempi recenti e persino a portata di social, aveva avuto luogo alcuni decenni prima per le esequie della madre di Otto, l’imperatrice Zita di Borbone-Parma (1892-1989).  Non si poté svolgere invece per il padre Carlo I (1887-1922), ultimo imperatore d’Austria, morto in esilio a Funchal, nell’isola portoghese di Madeira, dove tuttora riposa. Carlo ha ricevuto però ben altri onori, quelli degli altari, con la beatificazione celebrata da San Giovanni Paolo II (1978-2005) il 3 ottobre 2004.

Certamente il dialogo che sancisce l’ingresso nella Kapuzinergruft avviene nel contesto di funerali  imperiali. Suona tuttavia istruttivo in tempi di “esequie anonime”. Per quanto il tema possa suonare sgradito – ma quando riflettervi, se non a novembre? – c’è, infatti, un’estetica funeraria cui alludono i termini «onoranze funebri» o il più arcaico «pompe funebri». Anche il più superficiale libro di storia indica che sin dalle epoche più remote, esse coincidono con le prime tracce di presenza umana, anzi di civiltà umana. A grandi linee possiamo identificarle nei tre momenti chiave della veglia, del rito e della sepoltura vera e propria (a prescindere dalle specifiche modalità). Non possiamo scendere nel dettaglio di ciascuna, e anche sulla preparazione alla morte ci sarebbe molto da dire. Mi limito qui a evidenziare due fenomeni frequenti: il nascondimento della morte al morituro (impedendosi di prepararsi all’evento clou, che è tale per chiunque, quale che sia la fede che professa o non professa); e l’occultamento del cadavere, specialmente agli sguardi infantili. Azzardo semmai un’ipotesi: forse non sono i bambini a temere la morte, ma i grandi a temere le domande dei bambini sulla morte.

Il resto non è che la logica conseguenza di un’epoca che non ponendosi domande sulla vita, evita di porsele anche sulla fine. Il nero, simbolo del lutto nel mondo occidentale, si va scolorendo rispettivamente: in grigio metallizzato nei moderni carri funebri; in violaceo nei paramenti sacerdotali; in bordini beige o dorati nei manifesti. Tuttavia, dove la morte anonima trionfa è proprio nell’estrema dimora. All’appiattimento dell’edilizia abitativa, fa da contraltare l’appiattimento di quella cimiteriale. È sempre più raro vedere cappelle di famiglia, ciascuna col suo stile e un suo altarino, così come croci e angeli piantati in terra a vegliare sul defunto, la cui lapide recava incise epigrafi talora persino poetiche e oggi inconcepibili. Aggirandosi nei piccoli cimiteri di paese si respira ancora pace e aria di famiglia: spesso la visita non termina con i propri cari, ma tra un requiem e l’altro si finisce per indugiare tra quelle tombe diseguali che parlano di un «piccolo mondo» guareschiano, ora sepolto insieme a coloro che vi dimorano, ma più vivo che mai.

Ben altro linguaggio parlano i nuovi “condomini mortuari”: geometria, freddezza, uniformità e cara grazia se c’è almeno spazio per un «povero» Cristo fatto in serie. Niente cappelle di famiglia, al massimo chi può acquista due loculi contigui per sé e la sua signora, impilati in mezzo a una serie di sconosciuti per vari piani di altezza. Non di rado serve la scala per lasciare due fiori al caro estinto, sperando almeno che siano freschi. Tuttavia, la natura umana si risveglia, il dolore si ribella e specialmente nel caso di morti premature, le mensole del grigio condominio si vanno riempiendo di oggetti, sacri e profani, perché almeno questi sottraggano il defunto all’anonimato.

Rifletto su questo e altro, ogni volta che torno a visitare il «borgo natio», dove c’è una cappella di famiglia pronta ad accogliere le mie ossa – ma senza fretta. E ci riflettevo anche in un paesino tirolese, dove la città dei morti non è confinata fuori dalla città dei vivi, ma vi è perfettamente integrata, come un gradevole giardino ornato di sepolcri, tra le montagne, con vista su un panorama mozzafiato. Bello… da morire.

Sabato, 28 novembre 2020


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