L’epica della Chanson de Roland: il valore militare al servizio della difesa dei deboli e della Chiesa
di Lucia Menichelli Tursi
Tra l’XI e il XII secolo in Francia si diffondono le Chansons de geste, poemi scritti in lingua d’oïl, cantati o recitati, che celebrano le gesta di eroi e cavalieri paladini dei valori individuali e collettivi fondanti l’identità del loro popolo e che combattono guerre per difendere il loro mondo da attacchi esterni di qualsiasi natura, anche se il motive più ricorrente è quello della lotta tra cristiani e saraceni, tema urgente al tempo degli attacchi musulmani alla Terra Santa e della Reconquista spagnola.
Tra queste, indubbiamente la più nota è la Chanson de Roland, poema di 4002 versi decasillabi divisi in 291 lasse di lunghezza variabile, sulla guerra di Carlo Magno contro il re saraceno Marsilio, conquistatore della Spagna. Nell’opera vengono raccontate le gesta di numerosi personaggi, ma sicuramente l’eroe che avrà maggiore fortuna nell’immaginario letterario europeo è Orlando, che diverrà protagonista delle numerose avventure diffuse e tramandate da giullari e cantastorie. Un’epopea che in Italia si sedimenta nel folklore, e che resta ancora vitale nell’Ottocento, come testimoniano i significativi fenomeni dell’Opera dei pupi in Sicilia, dei “canta-rinaldi” a Napoli (cantastorie così chiamati perchè recitavano, per le strade e soprattutto nella zona del porto, brani dei più famosi poemi cavallereschi) o più genericamente la grande diffusione popolare degli adattamenti in prosa dei racconti del ciclo carolingio. Celebre è il passo della morte di Orlando, di cui, per l’ultima volta nel racconto, risaltano il valore, la fedeltà al re e la religiosità, cosicché la sua morte può certamente essere definita un martirio, inteso, cioè, come testimonianza di fede. I suoi ultimi gesti militari, infatti, sono l’uccisione di un saraceno che cerca di sottrargli la spade Durendal (non una semplice arma, ma un oggetto sacro, perché depositario di diverse reliquie di santi e della Vergine) e il tentativo di spezzare questa stessa per evitare che cada nelle mani del nemico come trofeo; poi si accascia sotto un pino, con il capo rivolto verso la Spagna, perché si capisca che si è battuto con onore fino alla fine; e tende il suo guanto al cielo, verso Dio, gesto simbolico dell’omaggio feudale, con il quale si riconosce vassallo del Signore e si affida a Lui. Infine, nelle ultime tre lasse dedicate alla sua morte, Orlando recita il mea culpa e la sua anima viene portata in cielo dagli arcangeli Michele e Gabriele e dall’angelo Cherubino:
CLXXIV
2355
Orlando sente che la morte lo prende,
Che dalla testa sopra il cuore gli scende.
Se ne va subito sotto un pino correndo
e qui si corica, steso sull’erba verde:
sotto, la spada e l’olifante mette;
2360
verso i pagani poi rivolge la testa:
E questo fa perché vuole davvero
Che dica Carlo con tutta la sua gente
Che il nobil conte è perito vincendo.
Le proprie colpe va spesso ripetendo,
2365
e a Dio per esse il suo guanto protende.
CLXXV
Orlando sente che il suo tempo è compiuto.
Volto alla Spagna sta sopra un poggio aguzzo.
Con una mano il petto s’è battuto:
« Dio, colpa mia verso le tue virtù,
2370
per i peccati, sia grandi, che minuti,
che dal momento in cui nacqui ho compiuti
fino a quest’ora che sono qui abbattuto! »
Il guanto destro verso il Signore allunga.
E scendon angeli del cielo incontro a lui.
CLXXVI
2375
Il conte Orlando è steso sotto un pino:
verso la Spagna ha rivolto il suo viso
A rammentare molte cose comincia:
tutte le terre che furon sua conquista,
la dolce Francia, quelli della sua stirpe,
2380
il suo signore, Carlo, che l’ha nutrito:
Né può frenare il pianto od i sospiri.
Ma non vuol mettere nemmeno sé in oblio:
Le proprie colpe ripete e invoca Dio:
«O vero Padre, che mai non hai mentito,
2385
tu richiamasti San Lazzaro alla vita
E fra I leoni Daniele custodisti;
Ora tu l’anima salvami dai pericoli
Per I peccati che in vita mia commisi! »
Protende ed offre il guanto destro a Dio:
2390
dalla sua mano San Gabriele lo piglia.
Sopra il suo braccio or tiene il capo chino:
A mani giunte è andato alla sua fine.
Iddio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele che guarda dai pericoli.
2395
Con essi insieme San Gabriele qui arriva.
Portano l’anima del conte in Paradiso.
Pur nella loro solennità, questi bellissimi versi possono apparire ancora elementari e ingénue alla nostra sensibilità; eppure, la limpidezza delle intenzioni e a la forza di convinzione che trasmettono, danno la misura di quanto sia stato forte e decisivo per la storia dell’Europa l’incontro tra lo spirito guerresco nordico e l’etica cristiana: grazie al riconoscimento di una legge più alta e di una realtà spirituale più estesa, I poemi epici mostrano che le guerre non sono state più combattute soltanto a favore di un singolo popolo, ma, se necessario, per la Cristianità; che il re, non più solo un barbaro capo di guerra, si è posto a servizio della religione cristiana; che il guerriero non ha più combattuto soltanto per la propria affermazione, ma, fedele al suo signore e a Dio, è diventato difensore della Chiesa e dei deboli.
Mercoledì, 22 novembre 2023