
Alcuni fondamenti della musica liturgica nella riflessione di Agostino d’Ippona (354-430), Niceta di Remesiana (335-414) e Severino Boezio (480 ca- 524).
di Marco Drufuca
Fin dai primi secoli gli approcci teologici alla musica sacra posero l’accento su differenti aspetti e per rilevanza e celebrità, a fianco del Vescovo di Milano Ambrogio (339/340 – 397) va ricordata la figura del suo pupillo, Agostino di Ippona (354-430), convertitosi al cristianesimo proprio in seguito all’incontro con Ambrogio.
Il rapporto di Agostino con la musica fu, per sua stessa ammissione, sempre incerto e vacillante (cfr. Conf. X, 33). Da un lato, la sua personalità era sempre stata particolarmente sensibile alla bellezza, al punto da dedicarvi la sua prima opera giovanile, il De pulchro et apto. Inoltre, la musica nello specifico ebbe un ruolo di primo piano in vari momenti importanti della sua vita, non ultima la sua conversione: “Quante volte una pungente commozione mi strappò il pianto tra gli inni e i cantici, mentre la tua chiesa risuonava dolcemente delle voci dei fedeli! Voci che fluivano nelle mie orecchie mentre la verità si discioglieva nel mio cuore: vampate di pii affetti se ne sprigionavano, e le lacrime cadevano, cadevano: e il pianto mi era dolce e salutare.” (Conf. IX, 6).
D’altro canto, ogni piacere sensibile doveva risultare sospetto all’impostazione neoplatonica del vescovo di Ippona, in quanto capace di distogliere l’animo dal desiderio del solo Dio. Non stupisce quindi come nelle opere di riflessione teorica, come le Confessioni o il De Musica, Agostino si mostri reticente a indulgere nel piacere musicale, e dubbioso nel proporlo ai fedeli sotto la sua cura, temendo di scadere nell’idolatria.
Tuttavia, nelle opere in cui l’interesse non è primariamente teorico ma piuttosto pastorale, come nelle Enarrationes in Psalmoso nei Sermones, Agostino sembra rompere gli indugi, elaborando una approfondita comprensione pastorale del canto sacro.In tali opere, il canto è visto innanzitutto come atto spontaneo di gioia e amore da parte del cuore che ha sperimentato l’amore divino: in questa direzione vanno le famose affermazioni secondo le quali “Cantare è un fatto di gioia” (Ser. XXXIV) e “Cantare è proprio di chi ama” (CCCXXXVI et al.). Con ciò, esso è anche un segno di speranza, capace di aiutare a tenere fisso lo sguardo sulla meta ultima e di riaccendere nel cuore il desiderio di vivere con pienezza dell’amore di Dio: “[Dopo la Parusia] vi sarà l’alleluia reale, ora infatti lo abbiamo solo nella speranza. È la speranza che canta alleluia, è l’amore che lo canta ora come lo canterà in eterno: ma ora canta un amore affamato, mentre in eterno canterà un amore appagato” (CCLV). Così il canto della Chiesa è canto di viandanti, che cantano “non per godere del riposo, ma come sollievo nella fatica.” (CCLVI). Di conseguenza, il canto porta con sé un’esigenza etica e morale, richiedendo che si viva in conformità con l’Amore e la Speranza professati: “non la lingua canti il cantico nuovo, ma la vita” (En. in Ps., 32, II, 8)
Dunque, nel pensiero agostiniano, particolarmente attento alla dimensione psicologica, emerge con chiarezza il rapporto tra il canto liturgico e le virtù cristiane della Carità e della Speranza, nonché la sua funzione di sprone morale verso la coerenza con quanto cantato e professato.
Un terzo approccio possibile è quello che emerge dalla riflessione di Niceta di Remesiana (335-414), vero e proprio cantore della lode di Dio. A differenza di Agostino, Niceta non nutre alcun riserbo per la delectactio del canto. Al contrario, si dice convinto che i Salmi cantati “non istigano la lussuria, ma la estinguono” (De psalmodiae bono, 7). Alla radice di tale visione c’è un’accentuazione diversa del valore e del significato del canto: in Agostino esso ha primariamente a che fare con la dimensione affettiva della persona, mentre per Niceta il canto è soprattutto atto di lode e glorificazione, elevato dalle creature tutte per celebrare e acclamare la grandezza del loro Dio. “Loderò il nome di Dio con il canto, lo esalterò con azioni di grazie, che il Signore gradirà più dei tori, più dei giovenchi con corna e unghie (Sal. 69, 31-32). Ecco il sacrificio eccellente, ecco il sacrificio spirituale, più grande di tutti i sacrifici delle vittime. […] Loda il Signore con la tua vita, immola il sacrificio di lode, e attraverso esso si mostrerà nella tua anima la via per la quale potrai giungere alla sua salvezza.” (9). Dunque, insieme allo sguardo ecclesiologico di Ambrogio e a quello psicologico di Agostino, con Niceta si fa strada un principio teocentrico, che vede il canto come parte del sacrificio di lode della creatura al suo Creatore e Salvatore. Non è un caso che Niceta sia considerato l’autore del Te Deum, da secoli il canto di lode a Dio per eccellenza!
Trattando di autori che hanno influenzato la comprensione cristiana della musica, non si può non nominare Severino Boezio (480 ca- 524), che con il suo De institutione musica avrebbe gettato le basi di tutte le riflessioni medievali sulla scienza dei suoni. L’opera è una “traduzione commentata” delle opere del pitagorico Nicomaco di Gerasa (I secolo d. C.) e di Claudio Tolomeo (100 d. C. ca.- 170 ca.); mediante essa, dunque, venne gettato il ponte che avrebbe collegato le tradizioni pitagoriche e platoniche alle loro successive elaborazioni in chiave cristiana.
Tali autori, affascinati dalla natura fisica e quantitativa della musica, la consideravano una forma di conoscenza, appartenente alla matematica. Studiare “la musica” significava infatti indagare i rapporti tra frequenze che sottostanno ai vari fenomeni acustici, in primis quello della consonanza. Così, la musica divenne la scienza dei rapporti tra grandezze, con un’applicazione che andava ben oltre l’ambito acustico: essa infatti assunse valore conoscitivo a livello cosmologico e antropologico.
Cosmologico, perché se nel cosmo si dà movimento, e i movimenti dei vari corpi si rapportano tra loro formando un tutto organico e armonioso, “come potrebbe esser possibile, che un così rapido meccanismo celeste si muova in maniera tacita e silenziosa? Anche se quel suono non raggiunge i nostri orecchi, cosa necessaria per svariate ragioni, non può tuttavia un movimento così rapido e di così grandi corpi non produrre alcun suono, specialmente nel momento in cui i movimenti degli astri sono legati in una tale armonia che nulla si può pensare di similmente unito e connesso” (De inst. mus., I, 2). Si parla così di musica mundana, ossia di musica come parte intellegibile dell’ordine universale.
Accanto e all’interno di questa dimensione sta poi la musica humana: anche l’uomo è un’armonia di elementi differenti, che si uniscono concordemente l’un l’altro a formare un’unità organica. “Chiunque si raccolga in se stesso, troverà la musica humana. Cos’è infatti ciò che unisce la incorporea vitalità della ragione al corpo, se non una certa armonia, che è come se unisse delle voci più gravi e più acute in un’unica consonanza, fungendo da principio regolatore?”. La musica, in particolare nella sua dimensione armonica, diventa così anche parte della costituzione dell’uomo.
Tutto ciò ebbe due grandi conseguenze: innanzitutto, la musica divenne una dimensione mediante la quale l’uomo si sapeva inserito in comunione con l’universo, parte dello stesso cosmo e rispondente alle stesse leggi. In secondo luogo, nella mentalità antica e medievale lo studio della musica non poteva avere solo valore conoscitivo o estetico, ma ricopriva anche una essenziale dimensione etica. “Nessuna via per l’educazione dell’animo è maggiormente aperta rispetto a quella dell’udito”: come potrebbe essere diversamente, se nell’atto stesso di “fare musica” si interagisce con una delle dimensioni più profonde dell’essere umano? Come si spiega altrimenti – prosegue Boezio – che le persone in lutto sfogano il loro dolore nel lamento funebre? Perché in battaglia lo squillo delle trombe si rivela così importante per galvanizzare gli uomini? “Da tutte queste cose traspare con chiarezza che la musica è per natura legata a noi in maniera tale che, anche se volessimo, non potremmo liberarcene” (I, 1).
Dunque, grazie all’opera di Boezio si fece largo nel pensiero medievale una concezione della musica come di un elemento cosmico fondamentale tanto dell’universo creato quanto della costituzione umana. Di conseguenza, occuparsene scientificamente aveva sia valore conoscitivo nei confronti dell’ordine creato, sia autentico valore morale, in quanto scoperta e interazione con uno degli aspetti fondamentali della natura umana.
Sabato, 8 febbraio 2025