Di Antonio Casciano dal Centro Studi Livatino del 14/02/2022
1. Nato a Rovereto il 24 marzo 1797, Antonio Rosmini dedicò l’intera vita a studi di filosofia, politica, diritto, etica, pedagogia e teologia. Ultimato il percorso di studi giuridici e teologici all’Università di Padova, ricevette l’ordinazione sacerdotale nel 1821. Da subito mostrò una particolare inclinazione per gli studi filosofici, al punto che Pio VIII in persona avrebbe scelto di tracciare la traiettoria della sua missione nel mondo e nella Chiesa, esortandolo a operare per condurre gli uomini alla religione per mezzo della ragione. Fondò l’Istituto della Carità e la famiglia religiosa delle Suore della Provvidenza, istituzioni aventi come scopo primario la formazione umana, cristiana e religiosa dei più piccoli e bisognosi.
San Paolo VI lo definì “profeta”, dacché con un secolo di anticipo aveva trattato dei problemi umani, sociali e pastorali poi affrontati e sviluppati in seno al Concilio Vaticano II. In una delle sue opere ascetico-religiose più importanti, Le cinque piaghe della santa Chiesa, si era detto amareggiato per la separazione di fatto esistente tra i fedeli e il clero durante la celebrazione eucaristica, data l’impossibilità per i primi di partecipare attivamente a una liturgia interamente pensata e proclamata in latino, così facendosi latore della proposta di tradurre le formule della Messa nelle lingue vernacolari. A causa del carattere innovatore di alcune idee ivi contenute, il Santo Uffizio decise nel 1849 di mettere all’indice quell’opera, e con essa un’altra, La costituzione secondo la giustizia sociale. Tuttavia, una nuova commissione nominata da Pio IX per l’esame di tutte le opere rosminiane concluse nel 1854 con esito favorevole il suo esame. Rosmini morì a Stresa il 1° luglio 1855.
2. Il concetto rosminiano di persona rappresenta una delle eredità teoreticamente più importanti del Roveretano, oltre che uno dei momenti più alti nella storia dell’elaborazione filosofica del concetto e dell’evoluzione semantica del termine. La persona è da lui pensata come “un individuo sostanziale intelligente, contenente un principio attivo, supremo e incomunicabile”. L’incomunicabilità altro non significa che l’unità individuale che gli conferisce specifica esistenza, grazie alla quale e per la quale ognuno è sé stesso, distinto dagli altri. È il concetto dell’unicità irripetibile, della singolarità di ciascun individuo. L’uomo inteso come realtà sussistente, diventa il paradigma dell’esistente, vertice supremo della realtà, cosi che nessun’altra entità può uguagliare il suo essere propriamente ed esclusivamente personale.
La persona ha dunque queste proprietà: è innanzitutto una sostanza, poi deve essere un individuo reale e particolare, che non appartiene alle cose puramente ideali, e avere intelligenza. Ma la persona umana è dotata anche di libertà e volontà, oltre che di intelligenza, essendo il solo ente finito cui è comunicato l’essere ideale per il lume della mente, che è lo spirito, e che lo rende un essere intelligente: la persona è reale, intuisce l’ideale e tende incessantemente alla pienezza morale;per questo motivo è l’ente più elevato del mondo finito. Solo nella persona c’è compresenza delle tre forme dell’essere, solo essa è capace di esistenza propria.
Poiché la volontà può operare su tutto ciò che l’intelletto apprende, essa è in grado di unire l’essere ideale e l’essere reale in una terza forma: l’essere morale. La persona è essenzialmente morale perché essenzialmente libera, così che ogni atto volontario costituente la persona finita è un atto di libertà essenziale, ovvero un atto d’amore, facoltà definita da Rosmini come “il culmine dello spirito umano, la più sublime delle facoltà soggettive”[1]. Detto altrimenti, siccome tutti gli enti sono buoni per il fatto stesso di esistere, a prescindere cioè dalle qualità accidentali che potrebbero connotarli, è nella natura della volontà personale amare tutte le cose esistenti: “Un cotal amor universale è, si può dire, il fondo della volontà, e della umana natura che la possiede”[2].
Orbene, ogni atto morale viene dall’essere e va all’essere. Il termine della volontà è sempre l’essere in quanto fine: la volontà non è che la potenza di operare in vista di uno specifico fine. La moralità si può dunque pensare come la ricerca attiva del fine da parte dell’uomo, che vive in una circostanza particolare e che decide, nello spazio della sua libertà, di aderire o non aderire all’ideale della perfezione ontologica della propria esistenza.
Solo con riferimento al bene assoluto della propria perfezione scelto come fine ha senso, secondo Rosmini, parlare di atto elettivo o effettivamente libero. In tal senso, dunque, la libertà dell’atto consiste nel “non patire necessità. L’atto libero è quell’atto della volontà che non viene determinato (da nessun impulso straniero al principio volitivo) da nessuna cagione necessaria diversa dal principio che vuole”[3]. Questo è il concetto assoluto di libertà, che connota ontologicamente la persona, la quale, creata libera, è così eccellente che “non può sottomettersi a nulla, fuorché alla verità”[4].
La libertà è il principio supremo dell’agire dell’uomo, ma questi è veramente libero, non impedito a fare ciò che più vuole, solo quando si compie la sua volontà e segue la sua intelligenza, ordinata al bene supremo. Tuttavia, Rosmini è ben consapevole del fatto che nella vita presente la libertà umana è sempre mista a qualche forma più o meno manifesta di servitù, non ultimi gli istinti e le passioni, e proprio per questo, il riuscire a dominare tutto ciò rende l’uomo virtuoso e libero dal peccato. È la libertà dei giusti in terra, dacché “il massimo bene soggettivo, o meglio, l’unico bene soggettivo della persona umana trovasi nell’uso dell’umana libertà, nel territorio della moralità”[5].
3. Si è visto come tutto ciò che è nell’uomo si annette a quel principio ultimo che costituisce la sommità del suo edificio teorico, e che Rosmini chiama persona umana. Il principio intellettivo nell’uomo unisce volontà e libertà: la volontà trae la propria eccellenza morale dall’idea dell’essere cui accede per mezzo dell’intelletto; la libertà, padrona della volontà, deriva la sua dignità dal fatto di disporre la volontà orientandola verso la pienezza dell’essere. L’antropologia rosminiana dà così corpo e compimento a un’ontologia triadica metafisicamente fondata, caratterizzata cioè dalla sintesi delle tre forme dell’essere, ideale, reale e morale. All’essere ideale, colto dall’intelletto, e a quello reale, colto dai sensi, egli affianca l’essere morale, in quanto libera volontà o amore, facoltà in forza della quale passare dalla potenza all’atto della deliberazione morale.
Anche quell’ente intelligente e finito che è l’uomo, dunque, in quanto ente o essere col suo fine, è trino nelle forme che costituiscono la sua persona, fatta appunto di essenza, potenza e sviluppo dinamico. A esclusione della sua limitatezza naturale, cioè, l’ente finito uomo partecipa di tutto ciò che è proprio di quello infinito.
La persona è dunque una permanenza ontologica: essa, per usare il lessico rosminiano, è «base», «fondamento», «soggetto», «principio» della libertà, dell’intelligenza, della volontà. La differenza tra ciò che si chiama semplicemente soggetto e la persona si rinviene nel fatto che mentre il primo indica il mero principio attivo contenuto in un essere senziente qualsiasi, intelligente oppure no, la seconda allude necessariamente a un essere intelligente, che possiede una dignità superiore a tutti gli altri esseri. Questa è appunto la dignità dell’uomo, inteso come vertice supremo della realtà, talché nessun’altra realtà può uguagliare il suo essere personale, la sua statura ontologica e il suo valore morale.
La sua sostanza suprema è lo spirito, che nella sua sussistenza rappresenta ciò che di più perfetto esiste in natura. Da qui la valenza ontologica della persona che non è meramente sostanza, né meramente relazione, ma una relazione sostanziale quale si trova nell’ordine dell’essere. Ma la persona potrebbe anche sottrarsi al compito morale suo proprio, scegliendo liberamente di non attuare l’ordine dell’essere. Se invece non si sottrae e con un atto libero della volontà produce il bene morale, nasce il merito, che è proprio dell’uomo che pratica liberamente la virtù, e che per questo è felice e merita stima.
4. Quanto al diritto, Rosmini lo definisce in connessione alla persona umana. Il principio supremo della persona, la volontà come adesione all’essere ideale, è la stessa attività del diritto: “La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente: quindi anco l’essenza del diritto”. Ma il diritto non può esistere senza morale, come non potrebbe esistere una scienza del diritto non fondata sulla giustizia. Così configurato, esso si pone come una scienza intermedia tra l’etica e l’eudemonologia, distinta ma non del tutto separata da esse. E proprio il dato eudemonologico costituisce il momento iniziale del diritto: “Il piacere, preso nel suo più ampio significato, il bene eudemonologico, quando è protetto dalla legge veniente dall’oggetto, costituisce il diritto”[6]. Il diritto è “la facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto”[7]. È la legge morale, dunque, quale legge di giustizia, a garantire l’oggettività del diritto, oltre che la sua forma. L’eudemonologia, invece, offre la materia concreta all’agire pratico e rappresenta il momento soggettivo, la sfera degli interessi del diritto. Ciò fa di esso un fenomeno tipicamente umano.
Con la sua volontà intelligente, l’uomo può dirsi autore e signore dei propri atti, così la persona e la sua libertà diventano l’essenza stessa del diritto. Solo la persona ha ed è insieme diritto: i due elementi coincidono, sono la stessa cosa. Se venisse meno questa coincidenza, non si avrebbe più un soggetto di diritto, ma una norma e degli individui soggetti a questa norma, e si ripresenterebbe il nodo inestricabile dei rapporti tra autorità politica, norma e libertà. E poiché la perfezione ontologica di tutto il creato si realizza nella persona, questa, quale sostanza concreta di giustizia e libertà, è la sede prima di ogni diritto, anzi, come detto innanzi, la persona umana è lo stesso diritto sussistente. La persona umana è diritto vivente protetto dalla legge morale nella misura in cui, nell’incontro con l’altro, riceve il comando di non lederlo.
La persona umana, come diritto sussistente e portatrice di dignità infinita, è allora sacra e inviolabile, anche nell’ipotesi di una vita che chiedesse di essere accompagnata nella fragile contingenza di una vicenda esistenziale fatta di dolore, malattia o sofferenza. La persona è il valore ultimo, il fondamento stesso del diritto, il diritto medesimo, il quale o è personale o non è. Nella dignità della persona, e più propriamente nell’essere ideale che le dà dignità, è «la ragione universale dei diritti, e prima ancora la scaturigine dei doveri»[8]. Ledere la persona è ledere una sussistenza; offenderla è violare il diritto: non solo disobbedienza a una legge, ma oltraggio ad un essere intelligente, sfregio a un ente personale. Il diritto è allora “naturale” nella misura in cui risiede nella natura stessa delle cose, nell’ordine intrinseco dell’essere, e come tale preesiste agli Stati e ai loro ordinamenti, i quali possono soltanto regolare la “modalità” di attuazione ed esercizio di tali diritti, dovendo anch’essi soggiacere ad essi.
Senza una solida base morale, i diritti dell’uomo sarebbero facilmente aggirabili e la persona umana esposta a possibili abuso e soprusi. La ragione, illuminata dal lume naturale sulla legge morale universale, è in grado di cogliere e di proporre il diritto oggettivo, ovvero il diritto veramente giusto e giustamente vero perché innestato nell’essere, tale da fondare ogni ordinamento, a ogni latitudine.
[1] A. ROSMINI, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Città Nuova, Roma 1981, p. 363.
[2] Ivi, p. 352.
[3] Ivi, p. 330.
[4] A. ROSMINI, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova 1967, p. 392.
[5] A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di S. Cotta, Rusconi, Milano 1985, p. 489.
[6] A. ROSMINI, Filosofia del diritto, cit., p. 104.
[7] Ivi, p. 107.
[8] Ivi, p. 103.