Di Anna Zafesova da Il Foglio del 29/12/2021
“Memorial ha screditato il potere, dipinto di nero il passato sovietico, deformato la storia”: l’arringa del procuratore nell’aula della Corte Suprema russa ieri ha spazzato via i cavilli e gli appigli formali, per dichiarare che la più vecchia e celebre ong russa viene liquidata non perché non ha apposto sulle sue pubblicazioni il marchio infamante di “agente straniero” impostole dal Cremlino, ma per avere “presentato falsamente l’Urss come stato terrorista”. E’ un processo contro la storia, e l’avvocato Genri Reznik lo mette agli atti quando dice che “in questa aula si stanno guardando due Russie: quella che era rinchiusa nel Gulag e quella che incarcerava”. Ha vinto la seconda, e il vero imputato – prosciolto, a differenza di Memorial – è stato lo stalinismo. Perché l’ong fondata da Andrey Sakharov ha combattuto, e continua a combattere, tante battaglie in difesa dei diritti umani, in Cecenia come nelle carceri dei nuovi detenuti politici, ma la sua fama è legata alle indagini e alla denuncia dei crimini di Stalin. Che da ieri viene equiparata alla “calunnia del passato storico”, che a sua volta diventa un reato.
Un limite che perfino gli stessi attivisti di Memorial fino all’ultimo non erano certi che il Cremlino avrebbe superato. In un sistema nel quale i verdetti vengono decisi già prima di dare notizia dell’incriminazione, la saga giudiziaria della ong ha impiegato più di un mese di rinvii e sospensioni, evidente sintomo di uno scontro all’interno del Cremlino. Mettere al bando una organizzazione internazionale fondata da un premio Nobel per la pace come Andrey Sakharov e difesa da altri due Nobel, Mikhail Gorbachev e Dmitry Muratov, oltre che da una pioggia di appelli dalla Casa Bianca all’Unione europea, intellettuali e artisti, era qualcosa che perfino molti membri del regime avevano considerato controproducente. “Hanno sputato in faccia a tutti i figli e nipoti delle vittime di Stalin!”, si è indignato Sergey Mironov, putiniano della prima ora e leader di Russia giusta, uno dei soli quattro partiti ammessi nel Parlamento dal 2003.
Il senso di un limite superato chiude un anno iniziato con l’arresto di Alexey Navalny, e di migliaia di suoi sostenitori, e proseguito in un’escalation di censura, repressione, torture e brogli che hanno tolto alla Russia perfino la parvenza cosmetica di una democrazia. Reznik dice che la sentenza contro Memorial stabilisce il principio che “lo stato ha sempre ragione”, conclusione logica della svolta ideologica e politica verso una dittatura nostalgica dello stalinismo, e nonostante il procuratore in aula si dichiari fieramente uno dei “discendenti dei vincitori” del nazismo, la sua retorica è di un erede di Vyshinsky. La storia ha compiuto un cerchio, e il ritorno della Russia alla libertà, un giorno, dovrà ripartire dallo stesso punto di trent’anni fa: condannare il Gulag.