di Michele Brambilla
Come afferma Papa Francesco, «nel nostro itinerario sul tema della preghiera, ci stiamo rendendo conto che Dio non ha mai amato avere a che fare con oranti “facili”. E nemmeno Mosè», oggetto specifico dell’udienza del 17 giugno, «sarà un interlocutore “fiacco”, fin dal primo giorno della sua vocazione».
«Il libro dell’Esodo ce lo raffigura nella terra di Madian come un fuggiasco»: si era infatti rifugiato nel deserto del Sinai perché aveva ucciso un sovraintendente del faraone d’Egitto che angariava gli schiavi ebrei, ai quali Mosè aveva scoperto di appartenere. Dio, però, non si era dimenticato del Suo servo Mosè e lo viene a cercare mentre sta pascolando il gregge di colui che gli ha dato rifugio.
La prima reazione di Mosè è la paura: «a Dio che parla, che lo invita a prendersi nuovamente cura del popolo d’Israele, Mosè oppone le sue paure, le sue obiezioni: non è degno di quella missione, non conosce il nome di Dio, non verrà creduto dagli israeliti, ha una lingua che balbetta… E così tante obiezioni». Il Papa si chiede: «con questi timori, con questo cuore che spesso vacilla, come può pregare Mosè?». Eppure diviene anche lui un maestro della preghiera, perché «Mosè mai ha perso la memoria del suo popolo. E questa è una grandezza dei pastori: non dimenticare il popolo, non dimenticare le radici». Siamo tutti generati alla fede nella comunità e nella famiglia di appartenenza, come rimarca lo stesso Pontefice facendo il nome di un altro personaggio molto importante della Bibbia: «è quanto Paolo dice al suo amato giovane Vescovo Timoteo: “Ricordati di tua mamma e di tua nonna, delle tue radici, del tuo popolo”. Mosè è tanto amico di Dio da poter parlare con lui faccia a faccia (cfr Es 33,11); e resterà tanto amico degli uomini da provare misericordia per i loro peccati, per le loro tentazioni, per le improvvise nostalgie che gli esuli rivolgono al passato, ripensando a quando erano in Egitto».
Mosè, sottolinea Francesco, non si concepisce in maniera distinta dal popolo che guida: «così, il modo più proprio di pregare di Mosè sarà l’intercessione. […] È il ponte. Che bell’esempio per tutti i pastori che devono essere “ponte”. Per questo», aggiunge, «li si chiama pontifex», letteralmente “colui che fa da ponte tra Dio e gli uomini”. Si spiega così anche uno dei tradizionali appellativi del vescovo di Roma, che è proprio quello di “Pontifex maximus”, proveniente dall’onomastica pagana. In origine il pontifex maximus era, infatti, la suprema carica sacerdotale della religione di stato dell’antica Roma e si esercitava fino alla morte perché ricalcava una delle prerogative del rex. A partire dal 12 a.C. divenne abituale attribuirla all’imperatore.
A partire dal IV secolo i cristiani cominciarono a chiamare il Papa pontifex maximus perché, in quanto successore di san Pietro, è chiamato ad essere il Vicario del vero ed autentico pontifex, Gesù Cristo. «E anche oggi», conferma il Santo Padre, «Gesù è il pontifex, è il ponte fra noi e il Padre. E Gesù intercede per noi, fa vedere al Padre le piaghe che sono il prezzo della nostra salvezza e intercede. E Mosè è figura di Gesù che oggi prega per noi, intercede per noi» presso il Padre. Allora «Mosè ci sprona a pregare con il medesimo ardore di Gesù, a intercedere per il mondo, a ricordare che esso, nonostante tutte le sue fragilità, appartiene sempre a Dio».
Giovedì, 18 giugno 2020