Da Libero del 05/11/2018. Foto da senato.it
Nel nostro sistema giudiziario una quantità impressionante di processi termina con quella ammissione di sconfitta da parte dello Stato che è la prescrizione. Di fronte alla proposta del ministro della Giustizia di fermarne il corso dopo la sentenza di primo grado non ha senso, come più d’uno ha fatto nella discussione che ne è seguita, ricordare quante prescrizioni maturano in Cassazione: appena l’1,2% dei fascicoli ivi pendenti. Il tempo negli uffici giudiziari in realtà decorre inutilmente o già nella fase delle indagini preliminari, o durante il giudizio di appello. Nel primo caso la prescrizione è il modo ordinario col quale più d’un p.m. trasforma in discrezionale quell’azione penale che la Costituzione impone come obbligatoria: talora schiacciato dalla mole dei procedimenti, il p.m. iscrive nel registro l’informativa di reato e la lascia morire senza trattarla. Nel secondo caso la prescrizione matura perché la fase dell’appello è diventata il collo d’imbuto dell’ordinamento, e non sempre i singoli distretti adottano misure organizzative tali da scongiurare esiti disastrosi: ricordiamo tutti la recente estinzione per prescrizione di due gravi violenze sessuali in un’importante Corte di appello del Nord, avvenuta non perché i termini per quel delitto siano brevi, ma perché si erano lasciati passare rispettivamente 20 e 17 anni senza giungere alla conclusione. Sospendere i termini dopo il primo grado scongiurerebbe certe sciatterie?
Usciamo da una discussione – more solito – dai toni ideologici. Esprimere riserve per l’emendamento del ministro Bonafede non equivale in automatico a schierarsi per l’impunità. Salviamo le intenzioni di tutti: quelle di evitare che i colpevoli approfittino del tempo che scorre per restare impuniti, e quelle di scongiurare che la sottoposizione a un processo penale diventi una condizione esistenziale perenne.
I due obiettivi non sono incompatibili: il primo si persegue con la revisione seria del codice di procedura penale trent’anni dopo il suo varo, “ripulendolo” di tutto ciò che fa perdere tempo senza tradursi in garanzie; con una altrettanto seria riduzione delle ipotesi di reato, per far sì che la sanzione penale punisca le condotte più gravi, lasciando il resto al campo degli illeciti amministrativi; con una formazione dei capi degli uffici che sappiano affrontare emergenze giudiziali. Avviene già, per es., con l’applicazione di magistrati e di personale di cancelleria da una sede a un’altra quando c’è un procedimento che esige sforzi e dedizione esclusivi: la si può rendere più funzionale. La chiusura di fatto del processo dopo la sentenza di primo grado è una scorciatoia e, come tutte le scorciatoie di fronte a percorsi impegnativi, garantisce perdite di tempo senza condurre alla meta.
Vi è però l’altra esigenza, quella di sottrarre una persona giudicata in primo grado a una incertezza senza fine. Preoccuparsene non fa iscrivere d’ufficio al c.d. “partito degli avvocati”: compete a tutti, in primis ai giudici. Riguarda chi in primo grado è stato assolto e non può continuare a vedersi preclusa per anni – per un processo che comunque risulta pendente – la partecipazione a un concorso pubblico o l’adozione di un bambino. Ma riguarda pure chi ha subito una condanna: a meno di non presumere che la colpevolezza affermata dal Tribunale sia in sé sufficiente e non abbia necessità di verifiche ulteriori. Perché è certo che, fermando il corso della prescrizione dopo il primo grado, il giudizio nella gran parte dei casi non andrà oltre. Se alla fine la riforma della prescrizione parte da questa presunzione, val la pena di ricordare che essa contrasta, oltre che con la Costituzione, col più elementare senso di giustizia.
Alfredo Mantovano