La concezione antropologica di cultura comprende qualunque risposta che l’uomo dà alle proprie esigenze: il modo di nutrirsi, di vestire, di associarsi in famiglie, comunità e Stati, il rapporto con il dolore e la morte, la relazione con il divino.
di Andrea Arnaldi
Come più volte ricordato in questa stessa rubrica, la “via pulchritudinis” non è faccenda riservata ai dotti e agli eruditi. Non è un fatto intellettuale ed elitario, capace di esprimersi unicamente nelle aule universitarie, nelle biblioteche, nei musei, nei convegni. Eppure, questa “via della bellezza” è una delle più potenti leve in grado di generare cultura.
Come è stato scritto, «Le nostre esistenze si svolgono all’interno di un movimento circolare: nel bene e nel male (potremmo dire nell’ordine e nel disordine) noi plasmiamo l’ambiente in cui viviamo e al tempo stesso l’ambiente in cui viviamo plasma noi. Tutto ciò che facciamo (o non facciamo) e che diciamo (o non diciamo) è espressione di noi stessi e influisce sulle persone e gli ambienti che frequentiamo, creando cultura» (Susanna Manzin, La bellezza a portata di mano, D’Ettoris Editori, Crotone 2022, pag. 11).
Ma allora cos’è la cultura? Secondo l’educatore e scrittore Franco Nembrini è «la capacità di connettere ogni particolare della vita con il tutto, di collocarla nell’orizzonte che le dà significato» e analogamente Giovanni Cantoni la definiva come qualcosa che permea ogni aspetto della nostra vita: «da come ci vestiamo al mattino a quello che pensiamo di Dio».
Queste definizioni, che svincolano totalmente la cultura dalla dimensione intellettualistica, rimandano alla concezione elaborata alcuni decenni orsono dalla antropologia e dalla sociologia.
La Treccani propone diverse definizioni di cultura: quella “classica”, legata all’acquisizione del sapere, attraverso la formazione e lo studio, viene declinata come segue: «L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo.»
A questa definizione ne segue però un’altra, che qui ci interessa particolarmente: «In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale.»
Questa accezione è frutto del pensiero, elaborato in modo specifico nella seconda metà del 18° secolo, che propone il passaggio da un significato ‘soggettivo’ a un significato ‘oggettivo’ della cultura. Siamo ancora in una fase che considera la cultura come esito di un processo di formazione, ma adesso ci si riferisce a un patrimonio intellettuale che è proprio non più del singolo individuo, ma di un popolo o anche dell’umanità intera.
Nel 1871 l’antropologo britannico Edward Burnett Tylor pubblica il saggio Primitive Culture nel quale presenta la prima e più importante definizione sistematica del concetto di cultura: «La cultura è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro della società”.»
La concezione antropologica di cultura viene così a comprendere qualunque risposta che l’uomo dà alle proprie esigenze: il modo di nutrirsi, di vestire, di associarsi in famiglie, comunità e Stati, il rapporto con il dolore e la morte, la relazione con il divino e la dimensione religiosa dell’esistenza.
Partendo da questo concetto, l’antropologo americano Roland Burrage Dixon all’inizio del Novecento poté osservare che cultura è la somma di tutte le attività di un popolo, i costumi, le credenze che siamo abituati a chiamare civiltà.
Nel discorso all’UNESCO del 2 giugno 1980, San Giovanni Paolo II affermò: «Il significato essenziale della cultura consiste nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale. L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche che l’uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da tutto ciò che esiste per altra parte nel mondo visibile: l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell’«esistere» e dell’«essere» dell’uomo. L’uomo vive sempre secondo una cultura che gli è propria, e che, a sua volta, crea fra gli uomini un legame che pure è loro proprio, determinando il carattere inter-umano e sociale dell’esistenza umana. Nell’unità della cultura, come modo proprio dell’esistenza umana, si radica nello stesso tempo la pluralità delle culture in seno alle quali l’uomo vive. In questa pluralità, l’uomo si sviluppa senza perdere tuttavia il contatto essenziale con l’unità della cultura in quanto dimensione fondamentale ed essenziale della sua esistenza e del suo essere».
Questa affermazione pone in evidenza che solo l’uomo è “autore” o “artefice” della cultura, e che l’uomo si esprime in essa ed in essa trova il proprio equilibrio. La cultura, in altri termini, è parte integrante e costitutiva dell’uomo, lo connota e lo definisce.
Ecco perché ogni aspetto, anche ordinario, quotidiano e secondario dell’esistenza umana è importante e merita attenzione. La cura dell’ordinarietà è quindi manifestazione di bellezza e di cultura, dice qualcosa di noi, comunica valori, contribuisce a riempire di significato la nostra esistenza.
Sabato, 7 settembre 2024