Di Guido Santevecchi da Il Corriere del 31/03/2021
«Non ci sono più lacune nel sistema elettorale di Hong Kong», annuncia il Partito comunista cinese. La falla, secondo Pechino, era la libertà di candidarsi al Legislative Council, il Parlamento del territorio. Ora invece la riforma varata all’unanimità dal Congresso del popolo cinese sancisce che solo «i patrioti che amano la Madrepatria cinese e sostengono il suo governo centrale» potranno fare politica nella City. È chiaro l’obiettivo: annullare l’opposizione nell’ex colonia britannica.
Sarà infatti una commissione rafforzata dalla polizia speciale cinese a indagare sul patriottismo e decidere chi sia degno di candidarsi a una carica elettiva. Il giudizio sarà conforme alla legge sulla sicurezza nazionale cinese, imposta nel luglio del 2020, che prevede anni di carcere per i sovversivi: e fare opposizione, secondo Pechino, significa cercare di sovvertire la stabilità dello Stato.
Per capire come potrà funzionare a Hong Kong il sistema elettorale riformato e patriottico, basta ricordare che sono già in carcere in attesa di processo 47 esponenti del fronte democratico che lo scorso luglio si erano candidati alle primarie a cui avevano partecipato oltre 600 mila elettori. I più noti sono il giovane Joshua Wong e l’editore Jimmy Lai. I volti riconoscibili dell’opposizione hongkonghese ormai sono tutti in cella o in autoesilio all’estero.
Dal punto di vista tecnico la riforma è un’equazione illiberale: il numero dei deputati è allargato a 90 e 40 saranno scelti da una commissione di saggi filo-cinesi; altri 30 dalle corporazioni economiche della città, sempre sensibili al volere di Pechino, per proteggere i loro interessi commerciali. Solo gli ultimi 20 membri del Legislative Council usciranno dalle urne, sempre che abbiano passato la prova del «patriottismo». Risultato: chi avesse il coraggio di candidarsi contro il pensiero unico governativo sarebbe comunque confinato alla minoranza, senza alcuna possibilità di contrastare il potere.
Erano state le «lacune» del sistema, secondo Pechino, a consentire all’opposizione democratica di Hong Kong di conquistare nelle ultime elezioni 34 dei 35 seggi a disposizione del voto popolare, la metà dei 70 deputati del Legislative Council di allora.
Un ritocco anche per il sistema di nomina del Chief Executive Officer, il governatore del territorio: verrà nominato da 1.500 notabili (nella stragrande maggioranza sempre espressione dell’establishment socio-economico filo-cinese), tra i quali sedevano in passato anche 117 consiglieri di quartiere eletti dalla popolazione. Siccome nell’ultima tornata i democratici avevano conquistato tutte queste 117 posizioni, la riforma le ha cancellate.
Non ci sono state proteste pubbliche ieri a Hong Kong. La riforma mette un altro chiodo sulla bara della promessa «Un Paese due sistemi» che Pechino si era impegnata davanti al mondo a mantenere fino al 2047. La gente forse ha capito che una città, per quanto orgogliosa, non può resistere alla nuova Cina di Xi Jinping.
La governatrice Carrie Lam dice che le nuove elezioni si terranno probabilmente a dicembre. L’anno scorso erano state rinviate per la pandemia. Pechino in realtà temeva il virus democratico: ora che lo ha debellato con il vaccino del patriottismo obbligatorio, permetterà agli hongkonghesi di mettersi ordinatamente in coda ai seggi.
In questo clima di «stabilità armoniosa», una novità anche per la polizia di Hong Kong, un tempo definita «la più bella dell’Asia», lasciata in eredità dai britannici nel 1997: il governo ha deciso che gli agenti debbono marciare in parata come i colleghi della madrepatria, a gamba tesa, al passo dell’oca come si fa in Piazza Tienanmen. Immagini dell’addestramento sono state diffuse da anonimi agenti ai quali non piace dover seguire (anche nella forma) l’ordine di marcia del Partito. Per George Orwell il passo dell’oca era «uno dei piò orrendi spettacoli del mondo».
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