di Francesca Morselli
Parigi, 1913: perché un artista presenta come opera d’arte una ruota di bicicletta la cui forcella rovesciata è avvitata su uno sgabello bianco da cucina? E chi è questo Marcel Duchamp (1887-1968), artista francese naturalizzato statunitense, che sconvolge le regole dell’espressione artistica compiendo un gesto su cui si fonderà tutta l’arte contemporanea?
Con Ruota di bicicletta, Duchamp sottrae un oggetto comune dalla funzione che esso ha per elevarlo a opera d’arte. Ma non solo: compie anche un paradosso logico, unendo un oggetto che esprime il movimento (la ruota) a un altro emblematico dell’immobilità (lo sgabello), un prodotto industriale (la ruota) a un lavoro artigianale (lo sgabello di legno), una forma circolare (la ruota) a una quadrata (la base dello sgabello).
La ruota, inserita in un contesto nuovo, è al tempo stesso riconoscibile e incomprensibile poiché disorienta lo spettatore abituato a considerare l’opera d’arte come il frutto di un talento eccezionale, il risultato di un percorso difficile da parte dell’artista ispirato e dotato di particolari capacità tecniche.
L’osservatore è quindi indotto a mettere in crisi i punti di riferimento dell’espressione artistica tradizionale e a chiedersi se un’opera d’arte sia tale solo perché viene collocata in una mostra o in una galleria, se l’aspetto estetico sia irrilevante o se gli oggetti prodotti industrialmente abbiano un valore. Inoltre, l’oggetto non scaturisce dalle mani dell’artista, ma viene assemblato da pezzi diversi, tratti dalla banalità quotidiana.
Ora, Duchamp esercita una grande influenza sul Novecento, e questo soprattutto a partire dagli anni 1960. Del resto la rivoluzione del Sessantotto si nutrirà proprio della sua poetica.
Nato in Normandia da famiglia colta ed abbiente, vive nel tessuto sociale e culturale elevato della borghesia medio-alta francese. Frequenta accademie artistiche, ma sin dall’inizio mostra una irrequietezza culturale che lo porta a sommare esperienze diverse in maniera molto eterogenea. Dal 1904 è a Parigi dove entra in contatto con le principali novità stilistiche del momento, assimilandole: dal neoimpressionismo al fauvismo al futurismo. Ma è soprattutto nell’ambito del cubismo che Duchamp si muove con maggior disinvoltura benché il suo intento sia quello di inaugurare una via di comunicazione nuova e diversa. Si sente infatti superiore alle regole sociali, e nei suoi lavori ama giocare con l’ambiguità dei suoni e delle parole. All’avvento della Prima guerra mondiale (1914-1918) si trasferisce a New York ed entra in contatto con il gallerista statunitense Alfred Stieglitz (1864-1946), ma soprattutto con artisti aperti a nuove sperimentazioni, come lo statunitense Man Ray (Emmanuel Radnitzky, 1890-1976) e il francese Francis Picabia (1879-1953). La sua attività, pur saltuaria, non rinuncia mai alla provocazione e l’invenzione del ready-made (il “già fatto”) ne è uno degli esempi più classici. Dal 1923 smette sostanzialmente di produrre opere, dedicandosi per i decenni successivi agli scacchi e partecipando anche a tornei professionistici internazionali.
Ebbene la cifra poetica propria di Duchamp, irregolare e ribelle, è l’avere elevato l’anormalità, intesa etimologicamente come rifiuto di qualsiasi regola, a pratica sia di arte sia di vita in un’unione altamente significativa. Lo afferma del resto apertamente: «Mi sono servito della pittura, mi sono servito dell’arte per stabilire un modus vivendi, una specie di metodo per capire la vita, cercare cioè per il momento di fare della mia stessa vita un’opera d’arte, invece di passarla a creare quadri e sculture. Ora penso si possa usare il proprio modo di respirare, di agire, di reagire agli altri […] si può trattarli come un quadro vivente».
Infatti, se il bello creato dall’artista è realmente tale quando è capace di generare un’esperienza che va oltre la contingenza, giacché l’oggetto bello diventa “centro” capace di svelare un significato che lo trascende, allora Ruota di bicicletta rivela tutta la dimensione dissolutrice che Duchamp vuole imprimere alla propria “arte nuova”. Come opera, infatti, essa non ha alcun valore catartico di purificazione, non eleva l’osservatore e neppure rimanda a un significato (sublime o orrido che sia) trascendente. Si tratta cioè di un oggetto esclusivamente funzionale proposto alla contemplazione estetica e, proprio per questo motivo, nega la funzione di richiamo al bello assoluto che è propria dell’arte vera.
Duchamp è per certi versi pure geniale. Non propone un’arte materialista, come per esempio quella del realismo socialista, né un’arte sganciata dalla realtà che insegue il puro estetismo. La sua proposta non riguarda nemmeno il negativo assoluto, come invece fanno gli artisti che rappresentano, compiaciuti, il caos e il mistero del male. Ma la sua rivoluzione è persino più profonda e radicale, anticipatrice e interprete qual è del relativismo e del nichilismo: attraverso la “normalizzazione” dell’arte non più riconosciuta come finestra sulla dimensione metafisica e religiosa, Duchamp celebra infatti la vita vissuta all’insegna della completa autoreferenzialità.
Sabato, 29 settembre 2018