Massimo Introvigne, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 2, estate 1985
La Rivoluzione francese: verso una interpretazione teologica?
1. Le interpretazioni
«La serie ininterrotta di controversie alla quale ha dato luogo l’interpretazione della rivoluzione francese dalle origini ai giorni nostri — ha scritto Alice Gérard — costituisce già di per sé una storia» (1). Nel 1947 Pierre Caron, dopo oltre centocinquant’anni di storiografia sul problema, concludeva sconsolato la seconda edizione del suo Manuel pratique pour l’histoire de la Révolution esclamando: «è quasi tutto da fare o da rifare» (2). Le divergenze interpretative a proposito di un fenomeno storico complesso non possono, evidentemente, stupire: la meta-teoria contemporanea ha sufficientemente chiarito che non si tratta tanto di «fotografare» il reale storico offrendo immagini univoche e indiscutibili, quanto piuttosto di rappresentare, di ridurre a unità e di spiegare elementi disparati, raccogliendoli in «figure» non identiche, ma analoghe alla realtà, che molto devono agli occhiali teoretici con cui il reale è stato inizialmente osservato (3). Tuttavia, per evitare che la scienza storica degeneri in mero relativismo, e l’analogia in una sorta di anarchica equivocità, sarà necessario avere sempre presente che le figure sono, a loro volta, suscettibili di valutazione e che le teorie e i modelli che lo storico costruisce potranno essere più o meno accettabili a seconda della loro capacità di chiarire e spiegare i fenomeni a cui intendono riferirsi.
Seguendo uno schema proposto nel 1970 da Louis Daménie, in un’opera importante e poco conosciuta (4), sembra possibile classificare le teorie interpretative sulla Rivoluzione francese in tre principali gruppi, a seconda che il fenomeno rivoluzionario sia primariamente considerato come «fenomeno divino», come «meccanismo sociale» o come «complotto». Completando lo schema di Louis Daménie si può ulteriormente suddividere ciascuno dei tre gruppi in due sottogruppi, a seconda che la valutazione della Rivoluzione francese sia, complessivamente, positiva o negativa.
a. «Fenomeno divino»
La presa della Rivoluzione francese sull’immaginazione degli storici è sempre stata potente, tanto che molte delle figure proposte si caratterizzano non solo per il loro contenuto informativo, ma soprattutto per un potenziale allusivo (5); e il successo di molte opere storiche è dovuto più alla loro capacità di evocazione immaginativa che alla precisione dei riferimenti documentali. La Rivoluzione è rappresentata come rivelazione, come disvelamento di valori assoluti sospinti alla ribalta della storia dal soffio di uno spirito «divino»: la Giustizia, la Libertà, il Popolo — tutti, naturalmente, con la maiuscola —, elevati a divinità e a dogmi. Il prototipo di questa letteratura e la Histoire de la Révolution française di Jules Michelet, pubblicata dal 1847 al 1853, dove la Rivoluzione è presentata come «dogma nuovo, dogma di vita», e finalmente come religione: «La Rivoluzione non adottò alcuna chiesa. Perché? Perché essa stessa era una chiesa» (6). Di questa nuova «Chiesa», la cui mistica è esplicitamente anticristiana, Jules Michelet vuole proporre non tanto una fondazione ideologica, quanto piuttosto un catechismo: con lui si ha il «trionfo del mito» rivoluzionario, non importa se a spese della verità storica (7). La storia di Jules Michelet è sempre, per sua stessa ammissione, «francamente e vigorosamente parziale», talora fino alla falsità e alla falsificazione. Poco importa: generazioni di studenti, in Francia e nel mondo, si nutriranno della sua nuova mitologia: nel 1889 il parlamento francese approverà una edizione nazionale della sua Histoire de la Révolution française; sul finire del secolo XIX Alphonse Aulard, il principale continuatore della scuola di Jules Michelet e uno dei grandi sacerdoti del mito rivoluzionario, scriverà: «si vorrebbe che il libro di Michelet facesse parte della coscienza morale di ogni studente francese» (8). Dopo oltre un secolo, lo spirito di Jules Michelet non è morto: la teoria della Rivoluzione come «fenomeno divino» sopravvive — soprattutto nella cultura dei mezzi di comunicazione di massa e dei libri di scuola — sia nella versione liberale, sia in una versione socialista, che risale alla Histoire socialiste de la Révolution française di Jean Jaurès (1901-1904), sia — infine — nella versione democratico-cristiana, che va da Philippe-Joseph-Benjamin Buchez, che vedeva nella Rivoluzione, nel 1834, l’epifania storica del Vangelo, fino agli studi recenti di don Bernard Plongeron, che già anticipano per certi versi la «teologia della liberazione».
Il successo della linea che vede nella Rivoluzione francese un «fenomeno divino» è in relazione con il carattere obiettivamente straordinario dell’avvenimento, avvertito già dai contemporanei come cesura con tutto quanto il passato aveva offerto e irruzione di un novum sulla scena della storia. Una irruzione tale da sollecitare potentemente all’uso di categorie teologiche, bibliche, apocalittiche: tra gli autori contro-rivoluzionari Joseph de Maistre scriveva già nel 1797, nelle Considerazioni sulla Francia, che non solo si trattava di «uno degli spettacoli più strabilianti che l’occhio umano abbia mai contemplato», ma anche che mai «la Divinità si era mostrata così chiaro in alcun avvenimento umano» (9).
Di fronte alla portata dell’avvenimento, Joseph de Maistre riconosceva il carattere inadeguato di ogni filosofia della storia che non si apra consapevolmente a una teologia della storia, e proponeva come duplice chiave interpretativa l’idea del castigo divino per i peccati di un mondo incredulo e corrotto in molte delle sue élite, e la contemporanea indagine su un misterioso disegno della Provvidenza. L’interpretazione della Rivoluzione francese in chiave teologica sarebbe stata successivamente ripresa in Germania e in Francia — soprattutto per opera di Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald — ma, forse, senza più raggiungere la capacità di evocazione e la profondità del grande pensatore savoiardo. La lettura teologica delle rivoluzioni si sarebbe, poi, quasi fatalmente ripresentata in occasione della Rivoluzione bolscevica in Russia, prima nella antologia Dal profondo, opera di un gruppo di pensatori ortodossi, e successivamente nella più meditata riflessione cattolica sul nesso — misterioso ma reale — tra la Rivoluzione d’Ottobre e il messaggio della Madonna a Fatima. Proprio in questo messaggio, che richiama — come ha affermato recentemente il cardinale Ratzinger — a una radicale «serietà della storia» (10), gli uomini del nostro secolo possono trovare una conferma della non estraneità delle categorie teologiche del peccato e della redenzione alla dinamica delle rivoluzioni; e appunto in questo nesso sta il nucleo — su cui vale la pena di meditare — della lettura della Rivoluzione francese come «fenomeno divino», soprattutto nella versione maistriana.
b. «Meccanismo sociale»
Fino dal secolo scorso, alla lettura immaginifica della Rivoluzione come «fenomeno divino» si contrappone un atteggiamento più freddo e distaccato, che si ispira alla sociologia e che vorrebbe essere «scientifico». La Rivoluzione viene allora analizzata come meccanismo, come macchina sociale, come costruzione che può essere ripetuta, analizzata, spiegata in un ideale laboratorio storico-sociologico che bandisca ogni elemento mitologico o sentimentale. Nella storiografia più recente è questa, per evidenti ragioni ideologiche, la posizione degli storici che si sono ispirati al marxismo classico, da Georges Lefebvre ad Albert Soboul, anche se nel secondo riemerge ripetutamente una retorica populistica che lo avvicina talora alla scuola del «fenomeno divino» nella sua versione filo-rivoluzionaria. Per Georges Lefebvre la meccanica della Rivoluzione francese deve poco al caso e molto alla necessità: quella necessità, già brevemente evocata dallo stesso Marx, per cui la borghesia doveva, giunti a maturità i tempi, liquidare l’antico ordinamento ancora feudale, e i primi tentativi comunistici all’interno della Rivoluzione francese dovevano fallire in quanto prematuri, per essere poi riproposti con successo, a tempo debito, dallo stesso emergere del marxismo-leninismo. I volumi di Georges Lefebvre non trascurano, peraltro, la complessità e la varietà dei gruppi sociali all’opera in Francia nel periodo rivoluzionario, e non mancano di evocazioni retoriche e note di colore, che interrompono la freddezza dell’analisi sociologica: il loro successo — anche in Italia — dipende però, soprattutto, dal carattere semplice e facilmente comprensibile dello schema marxista capace di dare a qualunque «intellettuale» l’illusione di avere in mano la chiave per ridurre a unità e per comprendere sequenze di fatti storici fra le più complicate.
La lettura sociologica della Rivoluzione come meccanismo non è, del resto, monopolio degli studiosi marxisti. Anche fra i nostri contemporanei non sono pochi gli storici di orientamento liberale che spiegano la Rivoluzione, con accenti più o meno consapevolmente positivistici, come un passaggio necessario in un fatale processo di modernizzazione della Francia, o perfino dell’Europa o del mondo. Jacques Godechot, per esempio, vede un processo conseguente e uno sviluppo necessario dalla Rivoluzione americana alla Rivoluzione francese; tesi peraltro discutibile, fortemente contestata da altri studiosi e che varrà a questo storico — che ha, fra l’altro, il merito di essersi, primo fra gli specialisti filo-rivoluzionari, seriamente interessato alla storia della Contro-Rivoluzione (11) — l’accusa di pregiudiziale «atlantismo» da parte dei marxisti.
La più grande ricostruzione in chiave positivistica del meccanismo della Rivoluzione francese non è venuta, però, da un difensore ma piuttosto da un detrattore del valore degli eventi iniziati nel 1789: dal 1875 al 1894 è stato il positivista Hyppolite-Adolphe Taine — pubblicando il suo Origines de la France contemporaine, opera di grandissimo successo — a diffondere presso un vasto pubblico l’idea della Rivoluzione francese come dinamica e come processo; un processo, tuttavia, di degenerazione e di dissoluzione, il frutto di una macchina che — una volta più o meno consapevolmente avviata — fa emergere, per una legge inesorabile della fisiologia sociale, quanto di peggio esiste nel corpo della società francese. Agli inizi del nostro secolo la tesi di Hyppolite-Adolphe Taine sarà ripresa, difesa — contro le critiche di Alphonse Aulard — e approfondita da un giovane studioso che cadrà nella prima guerra mondiale: Augustin Cochin, la cui opera Meccanica della Rivoluzione offre una descrizione, a tutt’oggi insuperata, della «macchina» instaurata dalle «società di pensiero» e dei suoi effetti meccanici e perversi (12). Sul piano della ricostruzione meticolosa dei fatti e degli episodi la lezione di Hippolite-Adolphe Taine e di Augustin Cochin sarà poi ripresa da Pierre Gaxotte, il cui compendio La Rivoluzione francese costituisce forse ancora oggi la migliore guida per comprendere il dipanarsi e il concatenarsi delle varie fasi del fenomeno rivoluzionario, al di là dei miti diffusi dai seguaci tardivi di Jules Michelet e delle semplificazioni di impronta marxistica (13).
c. «Complotto»
La macchina sociale mirabilmente descritta da Augustin Cochin sulla scia della lezione tainiana sembra, almeno a un primo esame, dovere il suo carattere mostruoso alla perversa capacità di funzionare da sola. Nella stessa Meccanica della Rivoluzione l’interrogativo su chi abbia messo in moto la macchina rimane per molti versi trascurato. Tale interrogativo è invece il campo specifico di indagine dei sostenitori della cosiddetta «teoria del complotto», che viene in genere fatta risalire alle opere del gesuita Augustin Barruel (14). Per il gesuita francese — contemporaneo della Rivoluzione come altri sostenitori della tesi del complotto, il sacerdote Francesco Gusta (15) e il religioso eudista beato François Lefranc (16) — la Rivoluzione francese è il frutto puntuale di una triplice congiura ordita dal giansenismo, dalla massoneria e da altre sette come quella degli Illuminati di Baviera, sul conto della quale storici moderni hanno confermato l’autenticità della documentazione di Augustin Barruel (17). La «tesi del complotto» è stata per lunghi anni attaccata come fantasiosa e inattendibile dalla storiografia filo-rivoluzionaria, e approfondita soltanto da studiosi cattolici come Jacques Crétineau-Jo1y — noto anche come il maggiore storico della Vandea —, il gesuita Nicolas Deschamps e monsignore Henri Delassus che, agli inizi del nostro secolo, ha offerto un compendio sistematico dei risultati scientifici e dottrinali a cui era pervenuta la storiografia contro-rivoluzionaria (18).
Oggi ignorare completamente la «tesi del complotto» come parte della spiegazione del fenomeno rivoluzionario appare sempre più difficile, nonostante i pregiudizi ideologici: sia per la minuziosa ricostruzione della attività delle sette illuministiche e massoniche da parte di studiosi di diverso orientamento, da Renzo De Felice a Bernard Fäy (19), sia per i dati che sempre più emergono sulle manovre settarie e occulte dei filosofi illuministi, la cui trama porta alla luce un autentico complotto, sia — infine — per la dinamica stessa delle ideologie, che si affermano nella storia — per usare un’espressione di Giovanni Paolo II — attraverso «disegni nascosti» — accanto ad altri «apertamente propagandati» — «miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta» (20). Del resto, pur senza mai usare l’espressione «complotto», anche storici marxisti come Albert Mathiez — e sta qui il suo elemento di autonomia rispetto a Georges Lefebvre, con cui pure ha a lungo collaborato — hanno insistito sul «disegno» e sul «piano» del gruppo giacobino, che non fu possibile portare a piena realizzazione solo per l’immaturità e l’ignoranza delle masse (21).
d. Verso una interpretazione sintetica
Distinguendo tre principali ipotesi interpretative in ordine alla Rivoluzione francese — «fenomeno divino», «meccanismo sociale» e «complotto» — si opera, naturalmente, una semplificazione e una schematizzazione che trascura problemi più specifici su cui la stessa storiografia filo-rivoluzionaria si è a lungo divisa: caratteristiche, per esempio, sono state le polemiche sulla figura di Maximilien Robespierre, considerato di volta in volta come l’eroe più puro o il principale malfattore del periodo rivoluzionario. Tuttavia, la divisione in tre principali gruppi permette forse di emergere dalla molteplicità apparentemente caotica delle scuole e delle interpretazioni, come permette di avvicinarsi a un modello che presenti un sufficiente grado di analogia con una realtà che rimane complessa e di difficile comprensione. Louis Daménie a cui risale la tripartizione che è stata qui seguita come schema generale — modificando peraltro la classificazione di qualche autore —, riteneva che alla domanda circa l’interpretazione più adeguata della Rivoluzione francese non si potesse rispondere semplicemente privilegiando una delle tre scuole, ma si dovesse invece cercare di combinare i loro risultati.
Esistono prove oggi sufficienti per affermare che il piano o progetto della Rivoluzione francese nasce come complotto in una serie di circoli settari, illuministici e massonici, che operano in parte autonomamente e in parte in modo coordinato. In modo più vago il progetto rivoluzionario era probabilmente già stato concepito dagli ambienti più estremistici del giansenismo; ma è soltanto con l’illuminismo — e particolarmente con Voltaire — che nasce un arsenale ideologico adeguato al servizio del progetto rivoluzionario, come ha mostrato in particolare Bernard Groethuysen (22). Una volta avviato, il fenomeno rivoluzionario — che si serve come suo strumento principale, anche se non unico, del dinamismo delle «società di pensiero» studiato da Augustin Cochin — presenta tutta una serie di aspetti meccanici e può essere descritto anche come una «macchina». Tuttavia, si tratta di una meccanica che ha un orientamento e un significato: un orientamento «filosofico», per cui occorre rifarsi ai progetti e ai complotti illuministici, e un significato che non può essere compreso nella sua profondità senza fare riferimento a categorie teologiche, che sole — secondo la lezione di Joseph de Maistre — possono rendere ragione di molti aspetti del fenomeno.
D’altro canto, di una interpretazione «teologica» della Rivoluzione francese si può parlare anche con un significato parzialmente diverso rispetto alle categorie di Joseph de Maistre. Il pensatore savoiardo applicava, in un certo senso «dall’esterno», categorie teologiche alla Rivoluzione francese, per indagarne il significato profondo; partendo dalla fenomenologia del complotto e del meccanismo sociale può essere invece possibile mostrare una teologia — o meglio una anti-teologia — come movente dei protagonisti più consapevoli della Rivoluzione, nel senso che il movimento rivoluzionario viene pensato e articolato come attacco contro la Chiesa e, in ultimo, contro Dio. È questa la tesi di un’opera recente dello storico Jean Dumont, La Révolution française ou les prodiges du sacrilège, che merita la massima attenzione (23). Con un metodo già applicato in altre opere su problemi controversi come l’Inquisizione o il ruolo storico della Chiesa (24), Jean Dumont parte dai miti relativi alla Rivoluzione francese diffusi nella cultura popolare; ne mette in luce gli errori e le contraddizioni, sulla base delle acquisizioni più serie della scienza storica; infine, indaga le ragioni e la genesi del mito, ed è proprio attraverso questa indagine che una interpretazione coerente con il reale storico emerge come per diametrum.
2. I miti
Constata Alice Gérard che a proposito della Rivoluzione francese «la storia erudita non ha tuttavia esorcizzato tutti i miti, se per miti si intendono non soltanto leggende e contro-verità facili da confutare, ma anche una visione globale e idealizzata, tanto più persistente quanto più è radicata nel subconscio e risponde a un bisogno di credere per agire» (25). La ragione del mito è, infatti, anzitutto ideologica e propagandistica — «credere», appunto, «per agire» —: la falsificazione sulla Rivoluzione francese è apparsa di volta in volta necessaria, non soltanto in Francia, alla propaganda per il liberalismo, per il socialismo, per i «progressismi» di tutti i colori. Si è trattato, peraltro, di una propaganda che dalla Rivoluzione francese e dalla sua preparazione ha ripreso non soltanto temi e contenuti, ma anche metodi: i miti sulla Rivoluzione riprendono, in una logica continuità, i miti della Rivoluzione, i miti diffusi dalla propaganda settaria e giacobina, prima e durante l’avvenimento rivoluzionario, per prepararlo, per favorirlo e talora per impedirne una adeguata comprensione — e quindi per ostacolare un’efficace reazione — da parte degli stessi contemporanei. L’opera di Jean Dumont premette giustamente allo studio sul mito rivoluzionario una serie di capitoli che fanno cenno ai miti diffusi dalla setta illuministica nel Settecento, che preparano la Rivoluzione francese e che peraltro, in parte, sopravvivono tenacemente ancora oggi.
a. Miti della Rivoluzione
Nella prima parte del suo volume, Jean Dumont analizza tre principali miti diffusi attraverso centinaia di opuscoli, libri, pamphlet dagli ambienti illuministici e massonici negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione francese: l’oziosità e la corruzione dei conventi religiosi, la malvagità dei gesuiti, il genocidio degli indios del Perù attuato con la presunta complicità dei missionari.
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Quando esplose nel Settecento, la polemica contro i religiosi e i conventi non era nuova. Nell’epoca del Rinascimento Erasmo da Rotterdam e François Rabelais avevano già lanciato contro i conventi gli attacchi di un ironia corrosiva, di cui si serviranno abbondantemente i protestanti. Ma, nonostante le apparenze, l’attacco al monachesimo di filosofi come François-Marie Voltaire e Denis Diderot ha poco in comune con gli attacchi di un François Rabelais. Nonostante i suoi eccessi spesso ingiustificati, l’autore di Gargantua rimane uno spirito religioso che protesta contro il rilassamento della disciplina conventuale perché vorrebbe vederla migliorata e riformata. I filosofi illuministi attaccano invece i conventi per distruggerli, e dietro l’attacco al conventi si profila sempre più chiaramente l’attacco esplicito alla Chiesa e alla religione cattolica. La mitologia sui conventi trova la sua espressione piu famosa nel romanzo La Religieuse di Denis Diderot, scritto nel 1760 e ininterrottamente ripubblicato fino alle edizioni continuate di cui è fatto oggetto attualmente in Unione Sovietica. Al di là della trama di quello che Jean Dumont definisce «un film licenzioso» emergono sostanzialmente due tesi: molte suore, forse la maggioranza, sono costrette a entrare in monastero dalle loro famiglie; l’assenza di vocazione rende impossibile la pratica della castità e spiega la degenerazione morale nei conventi. Come è stato ampiamente dimostrato, Denis Diderot elabora il tema di La Religeuse a partire dalla storia vera di una certa suor Delamarre, che aveva intentato — dopo diciassette anni di convento — un processo nel 1757 per ottenere l’annullamento dei suoi voti. Ma nella realtà dei fatti suor Delamarre non era né giovane, né bella, né desiderosa di avventure galanti come la protagonista del romanzo di Denis Diderot: si trattava, al contrario, di una suora di mezza età che reclamava non tanto la libertà, quanto piuttosto una congrua eredità e una dichiarazione di discendenza, sia pure illegittima, dalla casa di Orléans. Tanto poco suor Delamarre desiderava di essere «liberata» dal convento che, persa la causa e la speranza di entrare in possesso della sua eredità, non darà corso a ulteriori azioni e rimarrà tranquillamente nel suo monastero fino a che questo non verrà soppresso, trent’anni dopo, dalla Rivoluzione. Non si trattava, del resto, di una «prigione», ma dell’abbazia di Longchamp, conosciuta come un triste esempio di lassismo e di indisciplina, dove suor Delamarre esercitava l’ufficio di portinaia, con ogni facilità di allontanarsi se solo lo avesse desiderato. Mistificazione, quindi, sul caso Delamarre: ma mistificazione — più in generale — sulle «suore per forza». Gli specialisti di storia monastica hanno da tempo dimostrato che, al di là di qualche caso rarissimo, vera «eccezione che conferma la regola», la costrizione ai voti era pressoché inesistente nel Settecento al di fuori dei romanzi degli autori illuministici, e del resto le leggi ecclesiastiche e civili permettevano tutta una serie di ricorsi per liberarsi da impegni che non corrispondessero a reali vocazioni. L’assenza, poi, di vocazioni realmente forzate, e la relativa facilità di lasciare i conventi, rendono ancora più attendibili le conclusioni di commissioni di inchiesta ecclesiastiche e civili del tempo e di viaggiatori stranieri anche prevenuti: nei conventi francesi del Settecento vi erano certamente, qua e là e come in ogni epoca, singoli casi di religiosi e di suore infedeli ai loro voti; ma non vi era assolutamente nulla che giustificasse o spiegasse in una qualche misura l’abbondanza della letteratura pornografica che attribuiva a frati e a monache ogni sorta di perversioni e di nefandezze sessuali. Per una tragica ironia della storia, sarà la stessa Rivoluzione francese a fornire una prova inconfutabile della falsità del mito antimonastico. Alle suore, come ai religiosi, la Rivoluzione offrirà subito la «libertà» dai conventi, e perfino premi e riconoscimenti in caso di rinuncia spontanea ai voti e di matrimonio. Nella stragrande maggioranza dei conventi, soprattutto femminili, si risponderà con fierezza e fermezza che la più grande «libertà» per un’anima religiosa è quella di poter rimanere nella regola del proprio monastero. A Parigi su 80 conventi femminili, con 2.523 religiose, soltanto 12 suore accettano la «libertà» offerta dal governo rivoluzionario. Le autorità giacobine ricorreranno allora alla forza: e si vedranno così le suore e i frati, che la propaganda illuministica aveva dipinto come immersi nella mollezza e nella corruzione, salire eroicamente al patibolo piuttosto che rinnegare i loro voti; molti saranno anche elevati agli onori degli altari come martiri.
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Non maggiore fondamento storico, secondo Jean Dumont, ha il mito relativo alle perfidie dei gesuiti che, diffuso da un complotto illuministico e massonico le cui fila sono ormai ben note, penetrerà perfino nella Chiesa e porterà nel 1773 alla soppressione temporanea della Compagnia di Gesù da parte del Pontefice Clemente XIV, moralmente e fisicamente minacciato dall’ambasciatore spagnolo, l’illuminista Monino. Il carattere artificioso dell’attacco ai gesuiti emerge dalla natura contraddittoria delle accuse: presso i re assolutistici i gesuiti vengono accusati di essere nemici della monarchia assoluta e perfino fautori del tirannicidio, sulla base reale della loro dottrina sul diritto di resistenza, peraltro conforme a quanto già aveva insegnato san Tommaso; in Inghilterra e negli ambienti anti-assolutistici li si accuserà, invece, di essere i più feroci sostenitori del dispotismo e della tirannide. Contemporaneamente, si attizzerà l’invidia anche di una parte del clero contro la presunta «sterminata» ricchezza della Compagnia, in realtà non maggiore di quella di altri ordini. Jean Dumont ricostruisce, in particolare, il caso di padre Antoine Lavalette, che ebbe enorme risonanza verso la metà del Settecento e che ricorda peraltro anche episodi recentissimi. Padre Lavalette, missionario nelle Antille Francesi, si lancia per finanziare la sua missione in una serie di speculazioni economiche e finanziarie — peraltro non approvate dai superiori romani della Compagnia —, che hanno dapprima un grande successo; in un secondo tempo calamità naturali, eventi di guerra ma anche manovre esplicite della finanza internazionale del tempo, già legata al laicismo illuministico, provocano la rovina di padre Lavalette e la richiesta alla Compagnia di pagare i suoi enormi debiti, scatenando una polemica che ha una parte non irrilevante nel quadro della campagna mondiale contro i gesuiti. Un altro «caso» ampiamente falsificato dalla propaganda illuministica, e già discusso da Jean Dumont in una sua opera precedente (26), è quello delle reducciones del Paraguay, che vennero a lungo citate come prova di un atteggiamento «indigenista» e ostile alle autorità costituite da parte dei missionari gesuiti. La polemica sulle reduccionces continua ancora oggi, e l’organizzazione instaurata dai gesuiti in Paraguay viene spesso presentata come un regime comunista ante litteram. A questa versione, alimentata soprattutto dalle opere in difesa delle reducciones dello svizzero padre Clovis Lugon — favorevole a un «comunismo cristiano» — hanno prestato fede anche autori anti-socialistici come Igor Safarevic. Jean Dumont sostiene, con una serie di argomenti che sembrano persuasivi, la necessità di risalire, oltre l’opera di padre Lugon, ai documenti dell’epoca, da cui emerge che i padri gesuiti considerarono sempre l’esperimento delle reducciones come un modo per risolvere il peculiare problema degli indios in una situazione storica determinata, ma non certo come un modello di società suscettibile di essere esportato o proposto come ideale anche in Occidente (27).
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L’attacco ai conventi e l’attacco ai gesuiti trovano un momento di sintesi in un altro mito settecentesco, quello del genocidio degli indios del Perù attraverso il lavoro coattivo, la cosiddetta mita, imposto dagli spagnoli con la complicità dei religiosi missionari, spesso gesuiti, nelle miniere di argento di Huancavelica e di Potosi. Jean Dumont demolisce la «leggenda nera» relativa alle miniere d’argento, tuttora diffusa nonostante le chiare smentite contenute in opere di specialisti locali che risalgono alla fine del secolo scorso. Jean Dumont mette in luce le ragioni per cui, dopo lunga riflessione, i moralisti di diversi ordini religiosi giudicarono lecita l’imposizione della mita, cioè di una prestazione di lavoro coattiva — che sostituiva il pagamento di un tributo in denaro o il servizio militare, ma che veniva peraltro adeguatamente retribuita — da svolgersi per un periodo temporaneo abbastanza breve — da qualche settimana a pochi mesi —, in genere presso le miniere d’argento. La mita non ebbe mai, peraltro, una applicazione di massa: mentre un testo di divulgazione recente offre per la miniera di Huancavelica la cifra di oltre 17mila mitayos verso la metà del Settecento, Jean Dumont mostra — sulla base di ispezioni governative e di registri regolarmente tenuti — che il numero reale si aggirava sulle 180 persone. La maggioranza dei lavoratori delle miniere d’argento sceglieva volontariamente questo mestiere: anche i mitayos, terminato il breve periodo di lavoro coattivo, decidevano, nella grande parte dei casi, di fermarsi presso le miniere, particolarmente in ragione degli alti salari, superiori — nota Jean Dumont — in valore reale ai salari minimi che saranno riconosciuti agli operai dalla Rivoluzione francese. Il lavoro nelle miniere era certamente pericoloso e non mancavano gli incidenti: ma le misure di sicurezza in Perù erano persino migliori di quelle adottate all’epoca nelle miniere europee, le sanzioni per i sovraintendenti e i responsabili negligenti severissime e la situazione, tutto sommato, ben lontana da quella sorta di «campo di concentramento» mostrato dalla propaganda illuministica, alla quale ancora oggi qualche opera di divulgazione pseudo-storica sembra incredibilmente prestare fede.
L’analisi della letteratura relativa ai conventi, ai gesuiti, ai presunti «orrori del Perù» mostra già, secondo Jean Dumont, la logica soggiacente alla costruzione dei miti rivoluzionari: una logica, come ho accennato, in parte diversa da quella che secoli prima aveva animato la propaganda protestantica. I libellisti protestanti attaccavano i monaci, poi anche i gesuiti, per attaccare la Chiesa cattolica e proporre al suo posto un’altra «Chiesa», una religione presentata come più vicina al Vangelo originario. Nei pamphlet illuministici il tono si infiamma di pagina in pagina, e il lettore — spesso suo malgrado, attraverso una serie di reticenze e di trappole — viene condotto non soltanto dall’avvversione ai monaci, alle suore, ai gesuiti, ai missionari fino all’avversione alla Chiesa cattolica nel suo insieme, ma — ancora oltre — dall’avversione alla Chiesa fino all’avversione al cristianesimo e finalmente a Dio. L’«infame» che, secondo la celebre espressione di François-Marie Voltaire, la rivoluzione illuministica deve «schiacciare» non è solo la Chiesa cattolica, ma è la stessa religione e infine lo stesso Dio.
b. Miti sullla Rivoluzione
La seconda parte dell’opera di Jean Dumont esamina i miti, nati in epoca rivoluzionaria e riaffermati fino ai nostri giorni, che riguardano la stessa Rivoluzione francese. Jean Dumont dà per nota la demolizione dei miti relativi all’Ancien Régime nei suoi aspetti politici, di cui anche il grande pubblico — ma non ancora, apparentemente, i giornalisti e gli autori di libri di scuola, almeno nella loro maggioranza — ha potuto prendere conoscenza dopo l’opera largamente nota di Pierre Gaxotte: il governo di Luigi XVI, con tutti i suoi difetti, non era né particolarmente dispotico, né particolarmente centralizzatore; il centralismo — come la crisi economica — dipendeva principalmente dall’applicazione di idee illuministiche penetrate fino ai supremi vertici dello Stato: nonostante questi problemi, la situazione economica e sociale della Francia era ben lontana dall’essere disastrosa. Jean Dumont non si sofferma su questi aspetti del problema, ma rileva come le analisi della scuola positivistica, che confluiscono nell’opera di Pierre Gaxotte, sono importanti ma non sufficienti, in quanto si limitano a criticare — giustamente — l’aspetto politico-sociale del mito, senza spiegare come il mito sia potuto nascere e quindi perché la Rivoluzione abbia vinto. I miti esaminati da Jean Dumont si riferiscono, invece, a categorie interpretative di carattere più generale: l’avversario principale contro cui si leva la Rivoluzione, le caratteristiche della «Chiesa» scismatica «costituzionale», il carattere «popolare» del fenomeno rivoluzionario.
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Il primo mito, di straordinaria importanza, riguarda l’identificazione dell’avversario principale contro cui nasce e si afferma la Rivoluzione. La mitologia rivoluzionaria sostiene, infatti, che la Rivoluzione ha come avversari primi la nobiltà e la monarchia: la Chiesa viene aggredita e perseguitata non in quanto tale, ma in quanto — a torto o a ragione — viene considerata come alleata o infeudata al regime monarchico e nobiliare. Jean Dumont sostiene, al contrario, che l’avversario primo della Rivoluzione francese è il cristianesimo; la nobiltà e la monarchia sono attaccate soltanto quando mostrano una seria volontà di difendere le istituzioni cattoliche. La prospettiva convenzionale dev’essere pertanto rovesciata: non è la Chiesa a essere attaccata perché monarchica, ma è la monarchia a essere attaccata perché cattolica. La stessa storiografia di impronta positivistica aveva riconosciuto la necessità di un simile cambiamento di prospettiva, almeno con riferimento al pensiero illuministico: «se si dovesse riportare ad unità il pensiero del XVIII secolo, o almeno dei suoi scrittori — afferma Pierre Gaxotte — si potrebbe concludere che è stato anticristiano; non si potrebbe invece pretendere che sia stato antimonarchico» (28). Dopo il 1789 l’assalto, la propaganda, la violenza, le uccisioni si concentrano contro i religiosi, contro i sacerdoti, infine, senza discriminazioni, contro i cattolici, senza salvare neppure i cattolici «patriottici» o repubblicani. L’attacco contro la nobilta sarà meno generale, salvo il periodo più acuto del Terrore, e molto meno violento di quanto generalmente non si creda: molti nobili, che mantengono un atteggiamento politico cauto, non sono colpiti affatto — se non, talora, «simbolicamente» e con molte scuse — e sperimentano perfino «la facilità di vivere da nobile in periodo di rivoluzione» (29). Jean Dumont, sulla base di una documentazione d’epoca e, in particolare, di quella letteratura ignorata che è costituita dai diari e dalle memorie — fra cui quelle del nobile Dufort de Cheverny, che attraversa senza danni tutto il periodo rivoluzionario —, critica le conclusioni di molti storici recenti e invita a ritornare alla analisi straordinariamente lucida di un protestante «liberale», ma contemporaneo degli avvenimenti, come Edmund Burke (30). Il pensatore britannico viene normalmente ascritto ai seguaci della teoria del «meccanismo sociale» per l’abilità con cui mostra, immediatamente all’indomani degli avvenimenti e anzi mentre si svolgono, le caratteristiche degenerative del processo rivoluzionario; Jean Dumont insiste però sul fatto che Edmund Burke non si è limitato a descrivere un meccanismo, ma ne ha visto l’essenza, che è anticattolica e anzi antireligiosa. Del resto, le statistiche dello storico americano Donald Greer e gli studi di Norman Hampson confermano l’intuizione profonda di Edmund Burke: solo l’8,5% delle vittime della Rivoluzione francese apparteneva alla nobiltà, e questo significa, fra l’altro, che la maggioranza delle famiglie nobili di Francia — anche, ma non solo, a causa dell’emigrazione — non ebbe alcuna vittima. Non si vuole, naturalmente, negare il pesante tributo di sangue pagato da non poche famiglie della nobiltà negli anni del furore giacobino; ma gli studi richiamati da Jean Dumont sollevano il serio interrogativo se la retorica antinobiliare e il relativo furore fossero davvero diretti contro la nobiltà in quanto tale o non piuttosto contro quanto di sacrale e di gerarchico, e quindi di profondamente religioso e cattolico, la nobiltà — talora anche suo malgrado — rappresentava. Lo stesso discorso sembra valere sostanzialmente per la monarchia: la maggioranza dei capi rivoluzionari sarebbe stata disponibile a conservarla purché si prestasse al disegno anticristiano; soltanto quando divenne chiaro il nobile rifiuto di Luigi XVI — nonostante i suoi molti errori passati — di approvare la scristianizzazione della Francia, il re fu deposto e ucciso. Questi elementi non implicano una negazione del carattere politico della Rivoluzione francese, che rimane anzi — per certi versi — l’avvenimento politico fondamentale dell’epoca moderna; ma è il movente degli eventi politici che deve essere ricercato al difuori della sfera politica e rinvenuto nel disegno — leninistico ante litteram — di distruggere le basi sociali della religione.
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Dopo avere ricordato, senza omettere i particolari più crudi, le violenze e i massacri della Rivoluzione nei confronti di tutto quanto richiamasse la religione cattolica — e avere giustamente rilevato come la persecuzione giacobina contro i cattolici non fu certo meno intensa, quanto a virulenza genocida, della persecuzione nazionalsocialista contro gli ebrei —, Jean Dumont affronta un secondo mito della storiografia rivoluzionaria, per la verità di origine più recente e diffuso soprattutto da una certa parte della storiografia cattolica: il mito relativo al carattere «moderato» della «Chiesa» costituzionale scismatica suscitata dalla Rivoluzione. Contro i tentativi recenti di rivalutare e riabilitare sacerdoti — peraltro largamente minoritari — che aderirono alla «Chiesa» scismatica, Jean Dumont mostra in modo impietoso le miserie di un clero pronto a tutte le debolezze e a tutti i tradimenti. Gli storici cattolico-progressisti come don Bernard Plongeron amano presentare la «Chiesa» costituzionale come una «Chiesa dei poveri», più aperta e «avanzata» rispetto alla Chiesa ufficiale, capace di precorrere sia il Concilio Vaticano II che la «teologia della liberazione» sudamericana. Per sostenere queste tesi la letteratura cattolico-progressistica deve anzitutto, nota Jean Dumont, passare sistematicamente sotto silenzio non un personaggio secondario, ma l’ecclesiastico più autorevole fra quelli che aderirono alla «Chiesa» costituzionale: il cardinale Étienne-Charles de Loménie de Brienne, arcivescovo di Sens e per due anni primo ministro del re Luigi XVI. Gallicano, giansenistizzante, amico dell’illuminista d’Alembert — che fino dal 1770 lo raccomandava caldamente al suo corrispondente Voltaire —, il cardinale de Loménie de Brienne è il rappresentante più caratteristico non di una «Chiesa dei poveri» ma di un clero nobile e scettico, più amante del lusso e del potere che della religione, imbevuto di idee illuministiche e disposto a qualunque tradimento pur di conservare un ruolo di primo piano. Di fatto — quello che gli storici cattolico-progressisti dimenticano spesso di menzionare — il cardinale giacobino è il principale autore della costituzione civile del clero, che non è un frutto della Rivoluzione: Étienne-Charles de Loménie de Brienne la stava già preparando negli anni in cui fu primo ministro della monarchia. Una luce non migliore i documenti citati da Jean Dumont gettano sull’altra figura principale della «Chiesa» costituzionale, il famoso Henri Grégoire. Una figura a cui, secondo storici democratico-cristiani come Pierre Pierrard, si devono «intuizioni che anticipano quelle del Vaticano II» (31), ma che emerge in una luce ben diversa dalle testimonianze dei contemporanei e in particolare dalle memorie del nobile Dufort de Cheverny, testimone quotidiano degli avvenimenti nella diocesi di cui Henri Grégoire è divenuto vescovo. Vediamo così il vescovo Grégoire frequentare il locale club giacobino, lanciare sottoscrizioni per l’acquisto di picche per i sanculotti — picche non decorative, ma destinate a uccidere, e spesso a uccidere sacerdoti —, e perfino una sera «alla fine di una seduta estrarre da sotto la propria talare una enorme punta di picca» (32). Se a tutto questo si aggiunge la scelta come vicari per la sua diocesi di sacerdoti di dubbia fede in Gesù Cristo e di ancora più dubbia morale, ma di certa fedeltà giacobina spinta fino all’attivismo nelle denunce durante il Terrore, si può concludere facilmente che nella figura di Henri Grégoire vi è ben poco da rivalutare, e che certe difese d’ufficio, più che la vera immagine del riabilitato, aiutano a conoscere i pregiudizi ideologici dei riabilitatori. Il problema, peraltro, non è solo teorico, se è vero che da studi recenti emergerebbe che le zone in cui una percentuale significativa del clero aderì alla «Chiesa» costituzionale, suscitando l’unanime scandalo dei fedeli, sono le zone dove ancora oggi in Francia la pratica religiosa tocca i livelli più bassi.
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Il terzo mito rivoluzionario che Jean Dumont cerca di smantellare è relativo al carattere «popolare» della Rivoluzione francese. Si tratta, evidentemente, di un mito che trova oggi scarso credito presso storici di qualunque orientamento, ma che tuttavia sopravvive ostinatamente nella subcultura popolare incessantemente alimentata da opere di cosiddetta «divulgazione». Eppure dovrebbe essere ormai noto — grazie anche ai dati reperiti, al di là delle loro interpretazioni parziali, da storici marxisti come Albert Soboul — che i primi beneficiari della Rivoluzione francese non furono i «poveri», ma piuttosto i «ricchi», la classe nascente delle industrie e delle banche ideologicamente legata all’illuminismo giacobino. Non a caso uno dei primi gesti della municipalità rivoluzionaria di Parigi è un decreto che abbassa i salari minimi dovuti agli operai. Il minimo dovuto a un tagliatore di pietra, cinque lire prima della Rivoluzione, veniva per esempio abbassato a tre lire e otto soldi. Saint-Just ordina nel 1794 l’arresto di chiunque tenti uno sciopero — in precedenza più o meno largamente tollerato —; nello stesso anno le corvée di lavoro coattivo — tanto deprecate, ma forse nessuno lo ricordava più, nella letteratura illuministica prerivoluzionaria a proposito degli indios del Perù — vengono introdotte su tutto il territorio nazionale; la legge Le Chapelier — tristemente famosa — aveva già vietato, in nome della Rivoluzione, qualunque associazione di lavoratori. Neppure, nota Jean Dumont, si può sostenere — come fa qualche storico marxista — che il «popolo», disperato e affamato, si è comunque almeno lasciato utilizzare dalla borghesia che guidava la Rivoluzione. Non è stato — per limitarsi a un solo esempio — il «popolo di Parigi» a prendere la Bastiglia — presa, fra l’altro, elevata immediatamente a mito con un’operazione di propaganda da manuale; ma di scarso significato storico, tanto più che la fortezza non ospitava nessun detenuto politico e che la porta non fu abbattuta, ma aperta spontaneamente dal governatore —, ma un piccolo gruppo di «vagabondi, persone senza scrupoli e delinquenti comuni», secondo l’espressione medesima di uno storico filo-rivoluzionario come Jacques Godechot (33). Quanto al mito del popolo in armi, entusiasta — almeno — di difendere la patria rivoluzionaria quando viene attaccata dalle armi straniere, una folla di eruditi locali ha dimostrato che chiunque potesse si sottraeva con tutti i mezzi alla coscrizione obbligatoria. L’unica difesa in armi di ideali per i quali vale la pena di spendere la vita, l’unica vera guerra di popolo che si manifesti negli anni della Rivoluzione è la guerra di Vandea, esempio raro nella storia di guerra di un popolo unanime nella difesa dei propri valori morali e religiosi; e alla Vandea dei contadini si devono aggiungere le numerose rivolte degli operai di cui Lione offre il maggiore esempio. Mentre oggi una storiografia superficiale e presuntuosa declama contro i capitoli delle cattedrali, e principalmente contro il famoso corpo dei canonici-conti di Lione — per essere ammessi nel quale si richiedevano quattro quarti di nobiltà —, gli operai lionesi negli anni della Rivoluzione si rivolgeranno proprio ai canonici — di cui conoscevano le benemerenze sociali — per ottenere consiglio e aiuto nei confronti di una autentica persecuzione anti-operaia. Dopo la Rivoluzione, e per tutto l’Ottocento, sarà del resto il movimento sociale dei cattolici — e non saranno certamente i liberali — a battersi per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori sotto il profilo dell’orario, del riposo festivo, del diritto di associazione. Quanto alla Vandea, non soltanto l’opera di Jean Dumont ma — particolarmente negli ultimi anni — un’ampia serie di studi su personaggi ed episodi — tra cui emergono i saggi di Jean François Chiappe, che uniscono alla rigorosa documentazione uno stile che ne rende agevole la lettura anche per il pubblico dei non specialisti (34) — dovrebbe ormai avere mostrato a sufficienza l’origine popolare e religiosa di quella guerra straordinaria, ed e quasi incredibile trovare ancora in qualche testo, soprattutto scolastico, la tesi — dopo i lavori di Jacques Godechot non più condivisa dalla storiografia filo-rivoluzionaria di livello universitario — secondo cui le guerre vandeane sarebbero frutto di un complotto di aristocratici e di sacerdoti.
3. La genesi del mito
Anche nel volume di Jean Dumont non mancano punti che potrebbero essere suscettibili di un ulteriore approfondimento, e anche di qualche riserva, come una certa sottovalutazione della tesi del complotto e del ruolo della massoneria, e una certa simpatia — del resto non infrequente fra gli storici cattolici ostili alla Rivoluzione francese — per lo scisma contro il Concordato napoleonico della Petite Eglise, che costituisce invece esempio di confusione tra scelte storico-politiche e carattere divino-umano della Chiesa (35). Tuttavia, a prescindere da questi rilievi che riguardano aspetti settoriali, il volume di Jean Dumont merita di essere segnalato anche per gli accenni al modo in cui il mito rivoluzionario è stato fabbricato, che non mancheranno di suscitare qualche sorpresa. Se è vero infatti, secondo Jean Dumont, che la macchina che ha prodotto il mito è stata originariamente e prevalentemente costruita dal laicismo liberale; se è vero che il suo funzionamento è stato alimentato — e in parte lo è tuttora — da un certo populismo di impronta marxistica — dove il mito rivoluzionario è evocato in funzione della propaganda politica immediata —, non è tuttavia meno importante sottolineare il contributo decisivo che alla mitopoiesi rivoluzionaria è stato dato, almeno a partire dagli anni Trenta del nostro secolo, dalla storiografia cattolica di scuola democratico-cristiana. Dai numerosi riferimenti contenuti nell’opera di Jean Dumont sembra emergere, anzi, la tesi che la diffusione di una serie di miti storici intorno alla Rivoluzione francese sia stata la principale operazione culturale del democratismo cristiano in Francia, un paese dove la sua influenza in campo politico non ha avuto lunghissima durata. Sono stati autori democratico-cristiani come Henri Daniel-Rops, Adrien Dansette, André Latreille, Maurice Vaussard a insistere sul carattere soltanto secondario della lotta antireligiosa nella Rivoluzione francese e ad affermare che la Chiesa sarebbe stata colpita soltanto in quanto si era legata a filo doppio ai nobili e alla monarchia; l’operazione che tenta di «riabilitare» la «Chiesa» costituzionale è tutta e solo di marca democratico-cristiana, mentre i «costituzionali» sono in genere disprezzati per la loro debolezza umana e politica dagli storici liberali e marxisti; è ancora la scuola democratico-cristiana ad attardarsi sul mito della partecipazione «popolare» alla Rivoluzione e a tenersi in disparte dalla rivalutazione, oggi quasi unanime, delle guerre di Vandea.
Di fronte al fenomeno descritto diventa di fondamentale importanza chiedersi perché la storiografia di scuola democratico-cristiana si è così a lungo accanita nella difesa e nella divulgazione di miti la cui inconsistenza risulta oggi spesso abbondantemente dimostrata e accettata anche da storici filo-rivoluzionari. Jean Dumont suggerisce una spiegazione di carattere storico-politico: sarebbe stata la necessità di giustificare e difendere il ralliement alla repubblica del tempo di Leone XIII — contro i cattolici monarchici — a spingere varie generazioni di storici verso la negazione del carattere antireligioso, pure evidente, della Rivoluzione; come sarebbe stato possibile per i cattolici — infatti — «riconciliarsi» con una repubblica nata e tutta radicata nell’odio contro la Chiesa? (36). Il pregiudizio, tramandato all’interno della scuola democratico-cristiana di generazione in generazione, persisterebbe ancora oggi; ma oggi sarebbe possibile liberarsene, venute meno le sue ragioni storiche, in un’epoca in cui anche cattolici più favorevoli al regime repubblicano non dovrebbero ormai avere alcun timore del pericolo di una possibile restaurazione monarchica in Francia, almeno ad horas.
La spiegazione di Jean Dumont convince soltanto parzialmente. Sembra che nella opzione storiografica della scuola democratico-cristiana sia in gioco ben più del ralliement; da un certo punto di vista, infatti, il giudizio sulla Rivoluzione francese sembra essere l’autentico punto di partenza dell’intera ideologia democratico-cristiana. Per comprendere il significato di questa tesi occorre tuttavia brevemente premettere una sommaria analisi dell’uso linguistico del termine «democrazia cristiana» che, come molte parole importanti, non significa sempre la stessa cosa. L’espressione «democrazia cristiana» può infatti essere usata per designare:
a. un insieme di opere sociali, non politiche, create e gestite da cattolici per il miglioramento economico e spirituale dei ceti popolari più disagiati; questo significato lecito e «non politico», dell’espressione «democrazia cristiana» è ampiamente illustrato da Leone XIII nell’enciclica Graves de communi del 1901, dove si rileva che il termine non potrebbe avere il senso politico di implicare una scelta esclusiva per una determinata forma di governo, la democrazia, contro le altre: giacché «l’azione cristiana a favore del popolo» non dipende da alcuna specifica forma di governo, ma «può convenire con tutte»;
b. una preferenza, nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa, per la democrazia come forma di governo; preferenza, tuttavia, da una parte non esclusiva, in quanto come insegna al riguardo il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes — «si deve tuttavia tenere conto delle reali condizioni di ciascun popolo e della necessaria solidità dei pubblici poteri» (37); dall’altra, aperta a riconoscere che si sono affermate nella storia forme di democrazia che presentano sostanziali differenze fra loro, e che non tutte sono compatibili con i principi della dottrina sociale cristiana (38);
c. una ideologia che propone ai cattolici una opzione esclusiva ed escludente per la democrazia come unica forma di governo compatibile con il messaggio evangelico e «guarda con sospetto e condanna ogni sistema non democratico già per il fatto che non è democratico, senza tener conto della situazione concreta di un paese» (39); accetta tutte le forme di democrazia, e considera il pluralismo ideologico — cioè la presenza nella società di convinzioni diverse e divergenti quanto ai valori morali e religiosi fondamentali — come una condizione sociale ideale (40);
d. un partito, o un insieme di partiti a cui aderisce, in diverse nazioni, la maggioranza dei cattolici desiderosi di impegnarsi nell’attività politica; tali partiti sono, in genere, realtà complesse e stratificate su cui gli uomini che fanno propria la democrazia cristiana come ideologia cercano di esercitare un ruolo di egemonia e di direzione, con un successo che va da un massimo in Italia a un minimo in Irlanda e, almeno per certe zone geografiche, in Germania, per una serie di ragioni storiche complesse.
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La distinzione che è stata enunciata permette, forse, di illustrare ulteriormente il nesso fra Rivoluzione francese e democrazia cristiana. Mentre le opere sociali dei cattolici cercano, negli anni successivi alla Rivoluzione, di riparare ai danni da essa creati alla condizione dei ceti popolari, e mentre chi mantiene una legittima preferenza per la democrazia come forma di governo nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa indica, in genere, il regime nato dalla Rivoluzione come esempio tipico di democrazia inaccettabile, a cui contrappone modelli accettabili di regime democratico come l’antica democrazia svizzera (41), l’ideologia democratico-cristiana prende appunto le mosse da un giudizio positivo sulla Rivoluzione francese, sul regime e sulla condizione sociale — di pluralismo ideologico — che ne derivano, giudizio che poi si sforza di imporre ai partiti che la «scuola» ideologica cerca di egemonizzare. Non è allora eccessivo sostenere che la base e il fondamento della democrazia cristiana in quanto ideologia è un giudizio di sostanziale accettazione della Rivoluzione francese. Il «movimento democristiano — scriveva già nel 1975 Giovanni Cantoni, con evidente riferimento agli aspetti ideologici del fenomeno — è costituito da coloro che accettano la Rivoluzione e che vogliono la instaurazione della liberté, della égalité e della fraternité. Costoro seguono la Rivoluzione nel suo svolgersi, sempre alla retroguardia, incaricati principalmente, nell’esercito rivoluzionario in marcia verso il “paradiso in terra” di rappresentare soprattutto il momento fumoso, “mistico”, quello della fraternité. […] La sostanza del movimento rimarrà, però, sempre la stessa, quella che ho prima enunciato, e cioè l’accettazione della Rivoluzione» (42). Ma questa posizione ha bisogno, un bisogno vitale, di una sua storiografia, che cerchi con ogni mezzo di esorcizzare quanto di evidentemente inaccettabile per un cattolico si mostra nel fatto e nelle conseguenze della Rivoluzione francese. Il gruppo di storici democratico-cristiani francesi identificato da Jean Dumont sembra avere svolto appunto questa funzione: negare, con tutti gli argomenti possibili, il carattere essenzialmente anticristiano e antireligioso dell’impresa rivoluzionaria, sostenendo che la Chiesa veniva attaccata solo in quanto «compromessa» con l’antico regime, rivalutando la «Chiesa» costituzionale come momento in cui i cattolici si rendono in qualche modo presenti nel movimento rivoluzionario, e ricercando ostinatamente valori e presenze «popolari» negli avvenimenti iniziati nel 1789. La censura sulla Vandea e su tutti i fenomeni analoghi — tanto significativi da rischiare di mettere in crisi tutto lo schema — ne è la logica conseguenza. E quando tutto questo sforzo interpretativo comincia a essere vanificato da una mole impressionante di dati e di documenti, e infine dagli stessi storici liberali, che riscoprono la natura popolare della Vandea, e marxisti, che denunciano il carattere «borghese» della Rivoluzione; quando ricerche difficili da contestare fanno emergere la squallida minoranza dei preti «costituzionali» nella sua meschina realtà di compromesso e di tradimento; quando la Chiesa gerarchica, beatificando i martiri della Rivoluzione, ne richiama ancora di più il carattere fondamentalmente anticristiano, ecco allora che dal terreno della storiografia la scuola democratico-cristiana si volge alla creazione di miti, dando così il suo decisivo contributo alla gigantesca impresa di mitopoiesi che ancora oggi offusca le possibilità di una reale comprensione degli avvenimenti rivoluzionari. Come nell’antica scuola di Jules Michelet e nelle interpretazioni socialistiche, il creatore di miti democratico-cristiano assume una funzione che si contrappone a quella dello storico autentico: non si tratterà piu veramente di interpretare per comprendere, ma piuttosto di invitare il lettore a «credere per agire», secondo uno schema a cui ho già fatto cenno. L’operazione non rimane certo sul terreno della storiografia pura; da politica sperimentale, secondo la celebre espressione di Joseph de Maistre, la storia si fa proposta di esperimento politico, e l’interpretazione democratico-cristiana della Rivoluzione francese condiziona pesantemente — tramite il prevalere egemonico della ideologia sui partiti democristiani in vari paesi — la vicenda storica di intere nazioni.
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Avvicinandosi il secondo centenario degli inizi della Rivoluzione francese — di cui Jean Dumont teme giustamente improprie celebrazioni anche da parte di cattolici — varrà allora la pena di chiedersi se esistano le condizioni per un lavoro culturale che porti al superamento del mito rivoluzionario; nella consapevolezza che un tale superamento non interesserebbe soltanto gli studiosi di storia, ma non potrebbe non contribuire a mettere in crisi l’attuale configurazione della ideologia democratico-cristiana, con conseguenze potenzialmente assai rilevanti sui partiti che da quella ideologia sono stati egemonizzati, e quindi sulle nazioni in cui tali partiti operano. Un lavoro culturale di questo genere — nell’attesa del centenario, pericoloso ma suggestivo, che sarà celebrato nel 1989 — dovrebbe seguire due principali linee direttrici. Si tratterà, in primo luogo, di sottoporre a un vaglio rigorosamente critico le figure e le teorie storiografiche correnti intorno alla Rivoluzione francese, con particolare riguardo a quelle diffuse dalla scuola democratico-cristiana; senza trascurare un’opera di informazione che renda finalmente consapevole una parte significativa del grande pubblico della enorme distanza che separa la letteratura di divulgazione storica dalle acquisizioni della scienza storica più rigorosa, e attiri l’attenzione degli studenti sull’attendibilità spesso scarsa dei loro libri di testo. Il tentativo di superare i miti e le mistificazioni non potrà non essere sorretto da adeguate considerazioni di filosofia della storia e di meta-teoria storica. Quando si cercherà di chiamare i miti al tribunale di una cultura scientifica severamente critica, ci si troverà infatti fatalmente di fronte all’obiezione secondo cui i cattolici non possono fare storia in modo positivistico e hanno bisogno di sostituire al positivismo — una etichetta con cui si cerca di squalificare, per esempio, i lavori di Pierre Gaxotte — «una storia che non disdegni il rapporto con le istanze metafisiche» (43). Le suggestioni, di diverso valore e interesse, che sono venute in anni recenti da varie correnti filosofiche — l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer, il nesso fra conoscenza e «interesse» messo in evidenza dalla scuola di Francoforte, la riflessione sulle scienze sociali nella metascienza soprattutto di lingua tedesca — rendono forse oggi obsoleta — ma non tutti sembrano rendersene conto — la polemica sul «positivismo storico»: più che dei «fatti» cari alla scienza positivistica oggi si preferisce parlare di «figure» e di «teorie» che siano capaci di spiegare e chiarire sequenze di fenomeni e si trovino in rapporto di analogia con la realtà storica. Comunque si voglia giudicare questa «morte del fatto» a cui la cultura scientifica contemporanea sembra farci assistere, occorre avere chiaro che la fondata denuncia della superstizione del fatto positivistica non potrebbe — a rischio di giustificare tutti i miti e tutte le mistificazioni — condurre a un altezzoso disprezzo per i «fatti», o meglio per il reale storico, in nome di una immaginazione storica impegnata a creare figure senza più rapporto con la realtà e di non meglio identificate «istanze metafisiche». La storia, a questo punto, non sarebbe più sforzo di rappresentare e capire il passato, ma degenererebbe in pura invenzione di un passato a misura dei sogni o dei progetti politici del proprio presente: «credere — ancora una volta — per agire».
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Tutto quanto è stato esposto in questo saggio dovrebbe allora mostrare come una interpretazione della Rivoluzione francese coerente con le premesse metodologiche dianzi illustrate giustifichi la tesi secondo cui nel fenomeno rivoluzionario l’odio anticristiano e antireligioso è il principale movente dei protagonisti più consapevoli, e l’asse intorno al quale ruotano gli avvenimenti e le idee. In questo senso, anzitutto, si può affermare che la chiave interpretativa della Rivoluzione francese è teologica, dove «teologica» non è sinonimo né di fumosa né di posticcia rispetto al reale, ma, al contrario, indica una valenza che emerge ripetutamente e potentemente dalle manifestate intenzioni dei protagonisti e dall’orientamento dei fenomeni, così da permetterne la riduzione a unità e la spiegazione. Se questa conclusione è fondata sul piano della scienza storica, ecco allora che lo studioso cattolico si trova richiamato e provocato a un’ulteriore meditazione. Il cattolico sa infatti che, al di là di ogni possibile filosofia della storia, è necessaria una teologia della storia, perché tutto il divenire storico è già riassunto e ricapitolato in Cristo (44). Se «Cristo è il centro del cosmo e della storia» (45) ogni problema storico richiama finalmente a un problema cristologico. Ci sono, però, due modi contrapposti di impostare in chiave cristologica una teologia della storia, che dipendono a loro volta dal tipo di figura del Signore Gesù da cui l’analisi della storia muove. Se si parte da un Cristo accomodante e conciliante, pacifista più che pacifico, e si rimuove dal suo insegnamento tutto quanto suoni contrasto e condanna rispetto al mondo mondano, la teologia della storia verrà facilmente intesa come sforzo di mostrare che il dipanarsi della storia umana — in genere chiamato «progresso» — non può che essere, anche se con qualche inevitabile ritardo e contraddizione dialettica, una marcia verso il bene e verso il continuo miglioramento, giacché tutto in fondo è stato salvato da Cristo. È questa la prospettiva profonda che soggiace a certe opzioni interpretatjve di marca democratico-cristiana anche a proposito della Rivoluzione francese: nonostante ogni apparenza in contrario gli avvenimenti iniziati nel 1789, come momento del «progresso», non possono avere un orientamento davvero e radicalmente anticristiano, ma anzi si deve in ogni modo ricercare e salvare una loro valenza positiva, nel quadro di una storia che comunque va sempre avanti — per usare la celebre immagine di Pierre Theilard de Chardin — verso il «Punto Omega».
Una immagine accomodante e permissiva di Gesù Cristo ha certamente tutte le carte in regola per piacere a un’epoca intorpidita e infiacchita nelle fibre morali e spirituali della sua anima; ma non è affatto coerente — come ha ricordato recentemente Giovanni Paolo II, parlando ai giovani olandesi — con l’immagine che di Cristo ci presentano Vangeli. La Scrittura ci parla al contrario di un «Cristo molto esigente» (46), «segno di contraddizione» con la sua pretesa assoluta di essere la Via, la Verità e la Vita, venuto a portare non la pace ma la spada. Si comprende, allora, come di fronte al Cristo segno di contraddizione il genere umano si divida e si schieri in due campi contrapposti: «due amori — secondo uno dei testi più noti di sant’Agostino — hanno generato due città: quella terrena, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio; quella celeste, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé» (47). La dottrina agostiniana delle due città costantemente in lotta tra loro nel corso dei secoli rimane la principale chiave di interpretazione della storia umana e il nucleo di ogni teologia della storia coerente con il Vangelo. Non esistono «terze vie»: una lettura cristiana della storia non può che essere drammatica e alternativa. Oggi il giudizio drammatico sul reale storico sembra venire riproposto con particolare forza dal Magistero della Chiesa, in relazione a situazioni e a problemi concreti: per limitarsi a un solo esempio, guardando l’Italia Giovanni Paolo II vi vede un «innegabile contrasto di posizioni radicalmente opposte» con riferimento all’urto fra «sanità di tradizioni cattoliche» e «secolarizzazione» (48). Affermava del resto già Giovanni XXIII — che oggi si ama ricordare ancora e soltanto come il «Papa buono» — nel solenne discorso di apertura del Concilio: «il grande problema posto davanti al mondo, dopo quasi due millenni, resta immutato. Il Cristo, sempre splendente è al centro della storia e della vita: gli uomini o sono con Lui e con la sua Chiesa, e allora godono della luce, della bontà, dell’ordine e della pace; oppure sono senza di Lui, o contro di Lui, e deliberatamente contro la Sua Chiesa: divengono motivo di confusione, causando asprezza di umani rapporti e persistenti pericoli di guerre fratricide» (49). Lo scenario della storia, intesa nella sua essenza cristologica, davvero fondamentalmente «resta immutato» o con Cristo o senza Cristo, cioè contro Cristo. È proprio in momenti emblematici e vessillari come quello della Rivoluzione francese — ed è questo il secondo senso in cui si può parlare di un suo significato teologico, e insieme la seconda linea direttrice per un lavoro culturale sull’argomento — che dalla storia emerge tutto il dramma dell’alternativa, risvegliando bruscamente chi sognava impossibili conciliazioni fra Cristo e il mondo mondano: sul teatro del mondo si affrontano e si confrontano due principi, la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione, secondo l’analisi di Plinio Corrêa de Oliveira; due stirpi di uomini, secondo l’immagine di san Luigi Maria Grignion di Montfort; due stendardi, secondo la meditazione di sant’Ignazio di Loyola negli Esercizi Spirituali. Per sant’Ignazio non vi sono nella storia che due bandiere, «l’una di Cristo, sommo capitano e Signore nostro» posto «in un grande campo di quella regione di Gerusalemme, in luogo umile, bello e grazioso di aspetto», «l’altra di Lucifero, mortale nemico della nostra umana natura» seduto «in quel grande campo di Babilonia, come su una grande cattedra di fuoco e fumo» (50). Il tentativo di sfuggire al carattere drammatico e radicalmente serio della storia, che si manifesta tipicamente nella creazione di miti tesi a negare l’essenza anticristiana della Rivoluzione francese, costituisce in fondo la ricerca, la queste — inutile fino a diventare perversa — di un terzo stendardo, che dovrebbe in tesi raccogliere i «moderati» e gli incerti ma che ha il grave e principale difetto di non esistere.
Al di là delle stesse analisi di Jean Dumont la posta in gioco nel dibattito sulla Rivoluzione francese appare di un’importanza decisiva. Dietro l’alternativa fra due interpretazioni del fenomeno rivoluzionario proposte ai cattolici si svela l’alternativa fra due possibili teologie della storia, e infine fra due diverse figure dello stesso Gesù Cristo. La forte ripresa dell’insegnamento sul carattere drammatico e alternativo della storia da parte del Magistero della Chiesa offre oggi, forse, un’insperata e storica occasione di rimontare dal mito all’interpretazione della Rivoluzione francese, mettendo in crisi l’opzione originaria della ideologia democratico-cristiana e, quindi, aprendo la strada a un ripensamento strutturale sulla funzione e sulle prospettive delle forze politiche finora egemonizzate da classi dirigenti portatrici di quella ideologia. L’occasione, certo, può essere perduta. Ma che una simile occasione si presenti, nel quadro di una incipiente «restaurazione» nella Chiesa (51), proprio alla vigilia del secondo centenario della Rivoluzione francese, sembra un segno di quella che hegelianamente si potrebbe chiamare l’ironia della storia; o forse, piuttosto, un segno della misteriosa direzione spirituale che sugli uomini impegnati nel divenire storico esercita quella «Signora più splendente del sole» che volle scegliere l’anno stesso di un’altra grande rivoluzione, il 1917, per ricordare all’umanità a Fatima «l’assoluta serietà della storia» (52).
Massimo Introvigne
Note:
(1) Alice Gérard, La Rivoluzione francese. Miti e interpretazioni (1789-1970). Trad. it., Mursia, Milano 1972, p. 9.
(2) Pierre Caron, Manuel pratique pour l’histoire de la Révolution, PUF, Parigi 1947, p. 215. Si tratta della seconda edizione dell’opera pubblicata nel 1912 con il titolo Manuel pratique pour l’étude de la Révolution française.
(3) Sulle figure nelle cosiddette «scienze sociali» in genere cfr. Enrico de Robilant, La configurazione delle teorie nella scienza giuridica, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1976, pp. 478 ss.; Idem, Libertà reale e figure di giustizia, in Libertà, giustizia e persona nella società tecnologica, Atti del Convegno organizzato dal CIDAS, Centro Italiano Documentazione Azione Studi, a Torino nei giorni 11-12-13 aprile 1984, a cura di Sergio Ricossa ed Enrico di Robilant, Giuffré, Milano 1985, pp. 71 ss.
(4) Cfr. Louis Daménie, La Révolution, phénomène divin, mécanisme social, ou complot diabolique?, Les cahiers de L’Ordre Français, 2a ed., Parigi 1970.
(5) Il potenziale allusivo delle figure permette una valutazione «estetica» delle teorie considerate in se stesse. Tale valutazione — su cui cfr. anche il mio I due principi di giustizia nella teoria di Rawls, Giuffrè, Milano 1983, pp. 206-207 — non coincide con quella di cui fa oggetto le teorie storiche la cosiddetta cognitive aesthetics che si riferisce a una teoria della interpretazione che considera il sapere in quanto simbolicamente costruito: sul tema cfr. la raccolta Structure,Consciousness and History, a cura di R. H. Brown e S. M. Lyman, Cambridge University Press, Cambridge 1978.
(6) Jules Michelet, Histoire de la Révolution française, Parigi 1847-1853. 7 voll., cit. in A. Gérard, op. cit., p. 51.
(7) Ibid., p. 32.
(8) Ibid., p. 77.
(9) Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 19 e 6.
(10) Vittorio Messori, Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Tonno 1985, p. 111. Cfr. AA. VV., Dal profondo. Raccolta di saggi sulla rivoluzione russa, trad. it. a cura del Centro Studi Russia Cristiana, Jaca Book, Milano 1971.
(11)Cfr. Jacques Godechot, La Contre-Révolution. Doctrine et action. 1789-1804, 2a ed. agg., Quadrige/PUF, Parigi 1984.
(12) Cfr. Augustin Cochin, Meccanica della Rivoluzione, trad. it., Rusconi, Milano 1971. Cfr. pure, Idem, Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, trad. it., Bompiani, Milano 1981.
(13) Cfr. Pierre Gaxotte, La Rivoluzione francese, trad. it., Rizzoli, Milano 1949.
(14) La sua opera fondamentale è stata recentemente ristampata: Augustin Barruel, Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, Diffusion de la Pensée Française, Chiré-en-Montreuil 1974. Ne esistono due traduzioni italiane antiche, entrambe con il titolo Memorie per servire alla storia del giacobinismo: Venezia 1799-1800, senza indicazione di editore, e Perrotti, Napoli 1850.
(15) Cfr. Francesco Gusta, L’antico progetto di Borgo Fontana dai moderni giansenisti continuato, e compito, nuova edizione accresciuta, Venezia, presso Francesco Andreola, 1800.
(16) Cfr. François Lefranc, Oeuvres, Duvivier, Liegi 1826, Una notizia bio-bibliografica sul beato è riportata alla voce Le Franc, Francesco, di Charles Berthelot du Chesnay, in Biblioteca Sanctorum, Città Nuova, Roma 1966, vol. VII, coll. 1172-73.
(17) Cfr. Renzo de Felice, Note e ricerche sugli Illuminati e il misticismo rivoluzionario, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960; Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974.
(18) Cfr. Jacques Crétineau-Joly, L’Église romaine en face de la Révolution, Plon, Parigi 1859, 2 voll.; Nicolas Deschamps S. J., Les Sociétés Secrètes et la société ou philosophie de l’histoire contemporaine, Ségun, Avignone 1874, 2 voll.; Enrico Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo fra due civiltà, Cristianità, Piacenza 1977, 2 voll., ristampa anastatica della trad. it., Desclée, Roma 1907.
(19) Cfr. Renzo de Felice, op. cit.; Bernard Fäy, La Franc-Maçonnerie et la révolution intellectuelle du XVIIIe siècle, La Libraire Française, Parigi 1961.
(20) Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale della Pace, dell’8-12-1984, n. 6.
(21) Cfr. Albert Mathiez, La vie chère et le mouvement social sous la Terreur, Payot, Parigi 1927.
(22) Cfr. soprattutto Bernard Groethuysen, Filosofia della rivoluzione francese, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1967.
(23) Cfr. Jean Dumont, La Révolution française ou les prodiges du sacrilège, Limoges 1984, pp. 512.
(24) Cfr. Idem, L’Église au risque de l’histoire, Criterion, Limoges 1981; e Idem, Procés contradictoire de l’Inquisition espagnole, Famot, Ginevra 1983.
(25) A. Gérard, op. cit., p. 10.
(26) Cfr. J. Dumont, L’Église au risque de l’histoire, cit.
(27) Contra cfr. Igor Safarevic, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, pp. 189-200. L’interpretazione di Igor Safarevic, che non mi sembra persuasiva, deve molto a padre Clovis Lugon, frequentemente citato in nota. Essa, tuttavia, nulla toglie al valore della tesi del matematico russo circa il carattere di fenomeno storico mondiale del socialismo.
(28) P. Gaxotte, Le siècle de Louis XV, 2a ed., Club des Amis du Livre, Parigi 1963, vol. II, p. 160.
(29) J. Dumont, La Révolution française ou les prodiges du sacrilège, cit., p. 266.
(30) Una traduzione italiana della sua opera principale è stata recentemente ripubblicata: cfr. Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, Ciarrapico, Roma 1984, L’influsso di Edmund Burke spiega, fra l’altro, la simpatia per la Vandea che durerà a lungo presso ambienti inglesi anche di orientamento liberale. Anthony Trollope, che può essere considerato il romanziere «ufficiale» del partito liberale inglese in epoca vittoriana, pubblicherà così nel 1850 il suo La Vandée, an Historical Romance (Colburn, Londra 1850; ora in ristampa anastatica: Ayer, Salem 1980); il suo pubblico, in cui erano ormai penetrate idee del liberalismo continentale, non accoglierà però il romanzo con particolare favore.
(31) Pierre Pierrard, in Histoire de l’Église par elle-même, a cura di Jacques Loew e Michel Meslin, Parigi 1978, p. 511, cit. in J. Dumont, op. cit., P. 357.
(32) La testimonianza di Dufort de Cheverny è riponata ibid. p. 382.
(33) J. Godechot, Prise de la Bastille, Gallimard, Parigi 1965, cit. ibid., p. 446.
(34) Cfr. Jean-François Chiappe, Georges Cadoudal ou la liberté, Perrin, Parigi 1971; Idem, La Vandée en armes – tome I: 1793; tome II: LesGéants; tome III: Les Chouans, Perrin, Parigi 1982. Nel quadro dell’attuale ripresa di studi sulla Vandea va segnalata anche la ristampa anastatica dell’opera fondamentale di J. Crétineau-Joly, Histoire de la Vandée militaire, La Librairie Française, Parigi 1979, 4 voll. L’editore Yves Salmon di Châteaugiron si è a sua volta specializzato nella ristampa anastatica di opere rare sulla guerra di Vandea fra cui cfr. Gilbert Charette, Le chevalier Charette roi de la Vandée d’aprés des documents inédits, Salmon, Châteaugiron 1983, ristampa anastatica dell’edizione Sfelt, Parigi s. i. d.; e Françoise de Charot, Henri de la Rochejaquelein et la Guerre de la Vandée, Salmon, Janzé 1980, ristampa anastatica dell’edizione Champion, Parigi e Clouzot, Niort 1890. Su un’altra figura essenziale della guerra di Vandea più divulgativo nella presentazione, ma ricco di informazioni preziose, è Louis Guéry, Jacques Cathelineau (1759-1793). «Un Héros de Vitrail», Artaud, Nantes 1983.
(35) È probabilmente impossibile valutare la storia della Petite Eglise senza addentrarsi nella cronaca delle sue vicende spesso minute, villaggio per villaggio e parrocchia per parrocchia. Sul punto rimane fondamentale l’opera, di recente ripubblicata, di Auguste Billaud, La Petite Eglise dans la Vandée et les Deux-Sèvres (1800-1830), Nouvelles Editions Latines, Parigi 1982. Chi percorra questo dettagliatissimo lavoro, certamente severo verso la Petite Eglise, si rende conto dell’obiettiva difficoltà per i cattolici che avevano combattuto nelle guerre di Vandea di riconoscere che, nonostante tutte le apparenze, la «vera» Chiesa era quella del loro vescovo filo-napoleonico, che andava sostituendo le feste della Madonna con quelle di un forse inesistente san Napoleone, e non quella dei parroci scismatici che continuavano a pregare per il re; si rende però anche conto di come lo spirito di scisma nasce, nel caso della Petite Eglise, dalle deficienze di una ecclesiologia che non comprende che le posizioni — e gli errori — in politica non sono il criterio decisivo per riconoscere la sussistenza della Chiesa autentica. La presenza di un vero spirito di scisma nella Petite Eglise è confermata dalle vicende successive e dall’accanita persistenza di questa «Chiesa» fino ai giorni nostri, a decenni dall’obiettivo venire meno delle polemiche che l’avevano fatta nascere.
(36) Studiosi di opposta tendenza — democratico-cristiani desiderosi di acquisire alla loro posizione un pontefice e monarchici avversari di Leone XIII — sono arrivati a sostenere che la stessa enciclica Au milieu des sollecitudes si inserirebbe in qualche modo in un movimento di rivalutazione della Rivoluzione francese o almeno del regime repubblicano nato dalla Rivoluzione. L’argomento meriterebbe un attento studio; si può comunque applicare anche a quella enciclica di Leone XIII la distinzione tra fatto e documento che sembra accolta dal cardinale Joseph Ratzinger a proposito del Concilio Vaticano II (cfr. V. Messori, Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, cit., pp. 25 ss.). Il fatto della pubblicazione della Au milieu des sollecitudes nel 1892 può essere letto nel contesto di una politica che non diede i risultati sperati e su cui il giudizio storico può non essere positivo; il documento — considerato nel contesto del corpus di Leone XIII — non contiene alcun giudizio positivo sulla Rivoluzione francese. Il suo nucleo è la distinzione tra «forme di governo» e «legislazione»; l’enciclica afferma che la dottrina sociale della Chiesa è compatibile con tutte le forme di governo, ma non con tutte le legislazioni. Non è lecito insorgere contro una forma di governo in nome della semplice preferenza per un’altra, per quanto fondata su valide ragioni; resta comunque sempre lecito resistere a una legislazione inaccettabile. In sostanza Leone XIII non nega che la repubblica francese sia anticristiana, ma invita a criticarla non in quanto repubblica ma in quanto anticristiana. L’enciclica si chiude con una netta condanna del principio della separazione tra Stato e Chiesa, che la Santa Sede può talora tollerare nei concordati per prevenire mali maggiori, ma che i cattolici devono «guardarsi con somma cura dal sostenere».
(37) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes n. 31. Così commenta questo testo padre Anselm Günthör O. S. B., Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, ed. it., Edizioni Paoline, Roma 1979, vol. III, pp. 267-270: «Nessuna forma di Stato e nessun sistema politico offrono di per sé la garanzia di un buon governo. Tutto dipende dalla maturità, dalla formazione e dall’atteggiamento morale personale dei detentori del potere statale». Ne segue, fra l’altro, che «è irragionevole e imprudente imporre la forma democratica di Stato a quei popoli, che non sono preparati a gestirla. Per questo il Vaticano II, pur riconoscendo i vantaggi della forma democratica di Stato, osserva che bisogna tener conto anche delle condizioni dei singoli popoli». In conclusione, a proposito della democrazia la «prima esigenza» che secondo padre Anselm Günthör si pone ai cristiani «è negativa. Il cristiano non può condividere il culto della democrazia. Per “culto della democrazia” intendiamo la convinzione politica secondo la quale la forma democratica di Stato in quanto istituzione, di per sé e da sola, garantisce il benessere terreno. […] Ciò che è democratico equivale allora a progressista e a infallibilmente buono, mentre ciò che è non-democratico si identifica con il regresso e con l’inumano». Ma questo «dogma universale e intollerante dell’odierno ordinamento sociale», «questo culto della democrazia è pagano: fa di un’istituzione terrena un idolo e una dispensatrice di salvezza e si dimostra anche molto poco democratico e pericoloso».
(38) Sarà necessario almeno distinguere fra la democrazia classica, le cui condizioni di liceità sono state particolarmente illustrate nel magistero sociale di Pio XII e che corrisponde approssimativamente a una cultura politica non ancora liberale nel senso illuministico del termine, la democrazia governata che corrisponde al liberalismo illuministico e la democrazia governante che corrisponde alla transizione dal liberalismo al socialismo. Sulle ultime due forme cfr. Giovanni Cantoni, La via italiana all’«autogestione», in Cristianità, anno XII, n. 112-113, agosto-settembre 1984.
(39) A. Günthör O. S. B., op. cit., vol. III, p. 270.
(40) Sul pluralismo ideologico come connotato essenziale della «modernità» e sulla distinzione tra modernità come fatto — che non si può evidentemente non accettare — e modernità come insieme di dottrine che presentano il pluralismo sociale come ideale — la cui accettazione da parte di cattolici e la radice delle varie forme di modernismo, compreso il modernismo sociale —, cfr. il mio Modernismo e «modernità», in Cristianità, anno XII, n. 115, novembre 1984.
(41) Sull’esempio offerto dalla democrazia svizzera sono di fondamentale importanza due testi di Pio XII: cfr. Radiomessaggio al popolo elvetico, del 21-9-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, pp. 237-239; e Discorso ai pellegrini elvetici in occasione della canonizzazione di san Nicolao della Flüe, del 16-5-1947, ibid., vol. IX, pp. 71-80.
(42) G. Cantoni, La questione democristiana, in Cristianità, anno III, n. 10, marzo-aprile 1975, ora in Idem, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980, p. 47.
(43) Così uno dei principali storici italiani di scuola democratico-cristiana, Gabriele De Rosa, nell’intervista Il mestiere di storico. Archivi e largo pensiero, a cura di Giuseppe Di Fazio, in Il Sabato, anno VIII, n. 30, 27-7-1985, p. 16.
(44) Cfr. sul punto Hans Urs von Balthasar, Teologia della storia, 2a ed. it., Morcelliana, Brescia 1969. Contro ogni deviazione in senso progressistico sul tema della recapitulatio mundi cfr. pure Roger-Thomas Calmel O. P., Per una teologia della storia, trad. it., Borla, Torino 1967.
(45) Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, del 4-3-1979, n. 1.
(46) Idem, Discorso ai giovani dei Paesi Bassi ad Amersfoort, del 14-5-1985, in L’Osservatore Romano, 16-5-1985.
(47) Sant’Agostino, De Civitate Dei, libro XIV, cap. 28. Per un inquadramento della dottrina delle due città nel più generale contesto del pensiero agostiniano interessanti osservazioni si trovano in Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, trad. it., Jaca Book, Milano 1971.
(48) Giovanni Paolo II, Discorso alla XVIII Assemblea Generale dei vescovi italiani, del 29-5-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, I, p. 1506. Più in dettaglio, sullo stesso tema, cfr. Idem, Discorso ai partecipanti al secondo convegno della Chiesa italiana su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, dell’11-4-1985, in Idem, Per iscrivere la verità cristiana sull’uomo nella realtà della nazione italiana. Loreto 11 aprile 1985, Cristianità, Piacenza 1985.
(49) Giovanni XXIII, Allocuzione nel solennissimo rito di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dell’11-10-1962, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, pp. 579-580.
(50) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, trad. e note del p. Giovanni Filippo Roothaan, ventunesimo Preposito Generale della Compagnia di Gesù, a cura di Aurelio Dionisi S. J., Àncora, Milano, e Cenacolo, Brescia 1967, pp. 166-167.
(51) Sul senso in cui si può legittimamente oggi parlare di una «restaurazione» nella Chiesa cfr. le osservazioni del cardinale Joseph Ratzinger in V. Messori, Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, cit., pp. 36-37.
(52) Ibid., p. 111; cfr. Giovanni De Marchi I. M. C., Era una Signora più splendente del sole, 6a ed. it., Missioni Consolata, Torino 1971. Sull’argomento cfr., per uno sguardo sintetico, Antonio Augusto Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fatima secondo i manoscritti di suor Lucia, 4a ed. it., Cristianità, Piacenza 1982, e in particolare, per il nesso fra Fatima e la storia delle rivoluzioni, la prefazione di Plinio Corrêa de Oliveira su Fatima in una visione di insieme.