Di Massimo Calvi da Avvenire del 15/09/2022
I primi ad accorgersi del problema erano stati i grandi marchi specializzati negli alimenti per l’infanzia, poi è toccato alle aziende produttrici di pannolini, in seguito è stata la volta della grande distribuzione. A partire dagli anni Novanta l’effetto della diminuzione delle nascite ha incominciato a essere un argomento molto serio di dibattito nelle aziende che fondavano la propria ragion d’essere, cioè il proprio mercato, sulle famiglie con figli. La risposta del mondo produttivo alla crisi demografica, in molti casi, si è però tradotta in un banale, seppur non semplice, aggiornamento del proprio catalogo di prodotti.
In fondo, passare dallo sfornare biscotti per bambini ai cracker che aiutano a conservare la linea, o dai pannolini ad altro non richiede una grande fatica né un particolare sforzo di immaginazione. Più o meno nello stesso periodo lo scrittore americano David Foster Wallace, in quel romanzo spettacolare e visionario che è ‘Infinte Jest’, arrivava a immaginare che le sponsorizzazioni avrebbero conquistato il tempo, e a un anno solare prima o poi sarebbe stato assegnato addirittura il nome di un ‘pannolone per adulti’. Sembrava uno scherzo, non lo era. E non tutti lo hanno capito con altrettanta celerità. Per dire, il calo delle nascite che ha interessato in particolare l’Italia nel ventennio finale del secolo scorso non è stato interpretato dalla politica come un campanello d’allarme cui provare a rispondere con misure per invertire la tendenza, ma si è preferito, in nome della pace sociale, tamponare gli effetti del declino riallocando le risorse a favore della spesa previdenziale rispetto a quella per le famiglie.
La demografia non è però qualcosa che si può manovrare dall’oggi al domani, alzando o abbassando una leva, e la lunga stagione di colpevole sottovalutazione del problema a un certo punto era inevitabile venisse interrotta. Perché c’è sempre un momento, anche nelle feste più spensierate, in cui qualcuno arriva a spegnere la musica e a presentare il conto. Così, e veniamo ai giorni nostri, ecco che le imprese all’improvviso si trovano a prendere atto che non basta aggiornare la produzione o il catalogo per sopravvivere alla diminuzione delle nascite, dato che a mancare non sono tanto i consumatori di un certo tipo o di una certa età, ma sono proprio i lavoratori che non rispondono più all’appello. All’inizio si è provato a dare la colpa al cambio di aspirazioni dovuto alla crisi di senso scatenata dalla pandemia, poi si è incolpato il Reddito di cittadinanza, successivamente si è ritenuto fosse solo una questione di approccio generazionale al lavoro, per non dire delle basse retribuzioni. Poi, fatti meglio i conti, si è capito che se mancano i lavoratori è anche perché per decenni sono nati sempre meno bambini. L’Istat, nel diffondere i dati trimestrali sull’occupazione, ha appena certificato che rispetto a quasi diciotto anni fa oggi mancano 2,4 milioni di occupati giovani come conseguenza diretta dell’andamento demografico.
Prima di arrivare al mondo del lavoro, però, i giovani devono passare da scuola. Bene: è notizia dell’altro giorno che quest’anno nelle aule ci sono 150mila iscritti in meno rispetto al 2021, un calo del 2% in dodici mesi e del 10% in dieci anni. Al di là delle battute sulla fine delle ‘classi pollaio’ e su un potenziale miglioramento della qualità dell’insegnamento e delle retribuzioni dei pochi insegnanti che in prospettiva rimarranno, è evidente che ormai non si tratta più solo di provare a contrastare un’emergenza, ma di fare tutto il possibile per non annegare sommersi dall’onda di uno tsunami che è già qui.
Tra trent’anni, come ha avvertito il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo agli Stati Generali della Natalità, in assenza di cambiamenti l’Italia si troverà ad avere 5 milioni di abitanti in meno, tra mezzo secolo la popolazione persa sarà di 12 milioni. Questo significa che come ci siamo accorti che non si vendevano più pannolini per bambini, poi che hanno incominciato a mancare gli studenti, poi che sono venuto meno i lavoratori, presto potremmo dover scoprire all’improvviso che ci sono anche meno contribuenti e che mancano i soldi per avere una sanità quasi gratuita o per pagare le pensioni degli anziani di domani. E, soprattutto, che saremo un Paese di gente vecchia e in gran parte sola.
L’unico aspetto positivo è che di crisi demografica, a differenza di un decennio fa, oggi non ne parlano più solo gli specialisti, molti cattolici e qualche laico illuminato, ma il tema è diventato attuale. Nei programmi dei partiti politici che si candidano a governare, il tema della famiglia e della natalità trova ampio spazio, mentre il deficit sembra piuttosto essere di serietà nel momento in cui il libro dei sogni elettorale quasi mai viene accompagnato da una apprezzabile indicazione delle coperture necessarie a finanziare gli interventi, che per sortire qualche effetto non potranno tradursi in magre concessioni formali, ma dovranno rappresentare una rivoluzione rispetto all’approccio che si è avuto fin qui.
Il punto da cui partire, anche per un lavoro comune e una condivisione degli obiettivi, potrebbero essere proprio le parole che papa Francesco ha speso nel suo discorso durante l’udienza a Confindustria: «È urgente sostenere nei fatti le famiglie e la natalità. Su questo dobbiamo lavorare, per uscire il più presto possibile dall’inverno demografico nel quale vive l’Italia e anche altri Paesi. È un brutto inverno demografico, che va contro di noi e ci impedisce questa capacità di crescere. Oggi fare i figli è una questione, io direi, patriottica, anche per portare avanti il Paese».