Andrà tutto bene? Talvolta può andare anche molto male. Una miniatura medievale, un testo dei Carmina burana e una riflessione di Boezio ci ricordano che siamo in balia della sorte, che a sua volta è nelle mani della provvidenza.
di Stefano Chiappalone
«Finiamo sempre col vergognarci di aver condiviso un entusiasmo collettivo»: alla scuola di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) pratico l’allergia sistematica verso gli entusiasmi collettivi, come pure verso la collettiva illusione per cui l’anno a venire dovrebbe realizzare i desideri e le attese che l’anno vecchio non ha saputo mantenere. Non si spiega altrimenti come mai ciclicamente ci auguriamo che l’anno nuovo debba essere «migliore di quello appena trascorso» – all’inizio del quale, peraltro, avevamo espresso il medesimo auspicio. Se non altro, il 2020 ha smentito subito le promesse, sorprendendoci ben presto con una pandemia che ancora condiziona pesantemente la vita quotidiana. Altrettanto repentinamente è sorta l’ennesima ondata di entusiasmo collettivo, all’insegna di un «andrà tutto bene» e relativi lenzuoli arcobaleno sui balconi, che non ho mai condiviso perché decisamente antiestetici, oltre che ingenuamente infondati. Perché mai dovrebbe andare tutto bene? Non è andata affatto bene per chi è morto o per chi ha perso un parente. Non è andata affatto bene per chi si è ritrovato senza lavoro e forse privato della dignità. Al contempo è andata molto bene per chi invece ha incrementato i guadagni (che producesse generi alimentari o gel disinfettanti). È andata bene e male per chi è giunto alla fine dell’anno salvando la pelle e il fatturato, ma nell’alternanza delle misure restrittive ha visto ridursi la già scarsa vita sociale e magari passerà il Natale in solitudine.
Se non temessi di apparire troppo eccentrico, più che l’ingenuo lenzuolone appenderei ai balconi un soggetto tipico dell’iconografia medievale: la ruota della fortuna, che abbassa alcuni e ne eleva altri, a loro volta soggetti a decadere. Nei secoli centrali del Medioevo questo “gioco” è stato raffigurato in numerose miniature accomunate dalla personificazione della Fortuna che muove una ruota (e talvolta vi è intronizzata), il cui giro fa al tempo stesso salire alcuni personaggi e scenderne altri. Una delle versioni più eloquenti (da un manoscritto ligure del XV secolo) fa parlare anche i protagonisti. «Regnabo» (regnerò) dice il personaggio che sta salendo, favorito dal giro della ruota; «regno», afferma a sua volta quello che è giunto in alto, non senza aggiungere: «E regno e regnerò fin che a De piaxerà»; «regnavi» (ho regnato), ricorda tristemente colui che, invece, il giro della ruota ha appena spodestato, aggiungendo: «E vegno da regnà»; infine, più in basso, capovolto come una cimice, il poveretto che se la passa peggio di tutti constata: «Sum sine regno» (sono senza regno).
Dalle arti visive alla poesia e alla musica, questa visione è descritta nei versi dei Carmina burana, risalenti ai secoli XI-XII e resi celebri dalla versione del compositore tedesco Carl Orff (1895-1982). «O Fortuna / velut luna / statu variabilis / semper crescis / aut decrescis […]» (O Fortuna, come la luna, di stato variabile, sempre cresci o decresci) è l’incipit del testo (e del brano) più noto, che così la descrive: «[…] rota tu volubilis / status malus / vana salus /semper dissolubilis» (tu ruota volubile, stato effimero, caduca salute, sempre dissolubile).
Per cogliere l’immagine e i versi in tutta la loro ampiezza e risalire alla loro fonte primaria, dobbiamo però tornare indietro al VI secolo, aprendo il libro II del De consolatione philosophiae, opera del filosofo e politico romano Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (475 ca.-526 ca.), venerato come santo e martire. Protagonista della vita pubblica e stretto collaboratore di re Teodorico (454-526), Boezio cade in disgrazia a seguito di accuse di tradimento e scrive questo libro durante la prigionia, alla vigilia della condanna a morte. E la Fortuna personificata – che, è ormai chiaro, va intesa nel senso neutro di «sorte», più che nell’accezione positiva che siamo soliti attribuirle – gli chiede perché la accusi di avergli tolto ciò che non è suo. In fondo, la sorte non fa che il suo mestiere: «Haec nostra vis est, hunc continuum ludum ludimus: rotam volubili orbe versamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus. Ascende, si placet, sed ea lege, ne, uti cum ludicri mei ratio poscet, descendere iniuriam pûtes» (Questa è la nostra forza, questo è il gioco che conduciamo continuamente: noi giriamo la ruota in tondo, ci piace mutare le cose che sono in basso con quelle che si trovano in alto, e viceversa. Sali pure, se tu vuoi, ma a questo patto: che tu non consideri un’offesa il discendere, quando lo richiederà la regola del gioco)1.
Boezio sa bene che l’alternarsi della «fortuna», più o meno benevola, non esclude il ruolo del libero arbitrio e si colloca nella più vasta azione della provvidenza. «O felix hominum genus, si vestros animos amor, quo caelum regitur, regat!» (Oh felice il genere umano, se reggesse il vostro animo quell’amore che regge il cielo!): così si conclude il libro II, non prima di aver rammentato i mali che portano con sé certi beni, una volta ottenuti, e la necessità di trovare in sé stessi quella felicità che cerchiamo nelle cose. Facile a dirsi, anzi, estremamente difficile. Di sicuro è molto più realistico di «andrà tutto bene». Pessimista? Forse in parte, ma ricordando, sempre con Gómez Dávila, che «con pessimismo e buon umore non è possibile ingannarsi né annoiarsi». Buon anno, comunque vada.
1Severino Boezio, La consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini, visitato il 23 dicembre 2020.
Sabato, 26 dicembre 2020