Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 118 (1985)
Le pressioni della «rete» filosovietica nell’establishment degli Stati Uniti condizionano sempre di più il presidente americano e pregiudicano in modo rilevantissimo anche il futuro degli Stati europei, esposti al pericolo della finlandizzazione.
Una situazione preoccupante
La seconda amministrazione Reagan di fronte all’URSS
Quale è la differenza tra la passata amministrazione Reagan e quella da poco insediata, dopo la riconferma del suo mandato? Nessuna. Salvo il fatto che Reagan ha dovuto cedere davanti a pressioni che aggravano quelle di cui era oggetto dall’inizio del 1984, tese a fargli «moderare» la sua politica nei confronti dell’URSS.
Chiaramente la sua rielezione ha impedito che, con Walter Mondale, gli Stati Uniti cadessero nuovamente nel progressismo belante e disgregatore degli anni che vanno dal 1960 al 1979. Ma il fatto di rallegrarsene e di incoraggiarlo non deve portare a sottoscrivere ciecamente quanto già si lascia intravvedere, come se l’ombrello americano coprisse di nuovo l’Europa e per essa fosse ormai escluso ogni rischio.
Due segnali hanno avvertito che, anche se Reagan era rieletto, tutto per lui non sarebbe stato tanto facile, in materia di politica estera, dunque di fronte al solo pericolo che pesa sul mondo!
Il primo si è acceso una decina di giorni prima delle elezioni quando, rompendo per la prima volta la regola della riservatezza da parte dei diplomatici in attività, ventidue ambasciatori americani hanno apertamente dichiarato il loro appoggio alla rielezione del senatore Jesse Helms nella Carolina del Nord. Il fatto indicava, in questo modo, che Jesse Helms avrebbe potuto – grazie alla anzianità di servizio e al regolamento del senato americano – prendere in mano la potente commissione per gli affari esteri, che ispira e controlla la politica americana.
Jesse Helms è stato rieletto, ma immediatamente la «rete segreta» dei progressisti ha orchestrato contro di lui mille ostacoli per impedirgli di accedere alla commissione in questione. Da quel momento il senato americano è entrato in crisi a causa di compromessi che non annunciano nulla di buono. Infatti i conservatori hanno ormai soltanto due seggi di maggioranza, e vi sono mezzi per impedire che si manifesti un quorum a favore del senatore Helms.
L’altro segnale si è acceso dopo le elezioni, quando Jeane Kirkpatrick ha annunciato che sarebbe certamente ritornata alla vita privata. La stampa progressistica e le sue ramificazioni in Europa hanno lasciato intendere che si trattava di un fatto legato al suo carattere oppure a una ambizione smisurata. Newsweek ha lasciato filtrare una sua frase: «Evidentemente, una potente orchestrazione, condotta da qualche anonimo all’interno della Casa Bianca, si leva contro il perdurare della mia presenza …». Poi Le Figaro, da Washington, ha ammesso: «Il gioco delle influenze al quale si danno ultraconservatori e liberal non è finito con la decisione di Reagan di conservare integralmente la sua équipe, chiedendo a Schultz, a Weinberger e a Casey di restare ai loro posti rispettivi».
Infatti, la «rete» che, dagli anni Sessanta, vuole imporre a ogni costo la distensione, l’intesa e la collaborazione con l’URSS, qualunque cosa essa faccia, e chiunque la diriga, ha minacciato una crisi aperta se Jeane Kirkpatrick avesse ottenuto il posto di Schultz al dipartimento di Stato, oppure quello di Robert McFarlane – protetto da Henry Kissinger, più che mai consigliere di David Rockefeller – al Consiglio Nazionale di Sicurezza.
Il buon insediamento della «rete» filosovietica
Gli intrighi della «rete» si sono apertamente manifestati a partire da maggio del 1984, quando la campagna presidenziale è entrata nella dirittura dei suoi ultimi sette mesi. Un numero enorme di colloqui, di conciliaboli, di andate e ritorni tra Washington, New York, Chicago, e tra queste città e quelle di Europa, dove tale «rete» ha filiali e corrispondenti, è sfociato quasi improvvisamente in centinaia di editoriali, di commenti, di analisi, che sembravano copiate le une dalle altre. I loro temi principali erano i seguenti: la Casa Bianca sbaglia ad alzare continuamente il tono di fronte all’URSS; sbaglia a rafforzare l’embargo sui trasferimenti tecnologici all’Est; sbaglia a inventare un qualsiasi pericolo sovietico in America Centrale; sbaglia a irritare i suoi alleati europei occidentali con iniziative intempestive, ecc.
I «tenori» della Internazionale Socialista, le personalità dei ben noti organismi sovranazionali, così come i giornali liberal americani e quelli progressisti europei, sembravano ispirarsi proprio alle stesse fonti. E si tratta di fonti che il CEI, il Centre Européen d’Information, ha potuto identificare, con date, nomi e luoghi, risalendo alle premesse di tale sinfonia. Già nel gennaio del 1984 un amico e corrispondente aveva «preso in trappola» Robert D. Schmidt, presidente della Control Data Corporation nonché della ACEWA, il Comitato Americano per una Intesa Est-Ovest (1). Era bastato fargli inviare una nota documentata e con riferimenti tratti dalle opere del professore Anthony Sutton, per fargli presente che i crediti e la tecnologia offerta all’URSS ne assicuravano contemporaneamente la sopravvivenza economica e il rafforzamento militare.
La risposta, su carta intestata, ha un suo peso storico: il presidente della Control Data, che siede accanto a David Rockefeller in diversi gruppi o comitati mondialistici, respinge ogni tentativo di mostrare il pericolo sovietico; assicura che l’URSS ha sempre rispettato i suoi contratti e i suoi trattati, e pensa che la non collaborazione con essa porterebbe a un olocausto nucleare. In ogni modo, secondo lui, nessun embargo è mai servito a nulla, e non ha mai avuto nessun effetto, neppure minimo, sulla economia dell’URSS.
Ci si può chiedere, allora, perché Mosca e i suoi portavoce europei occidentali conducano e finanzino campagne, perfino sui nostri giornali, per costringere Ronald Reagan a togliere ogni embargo, ed è proprio quanto si è appena letto sulla stampa europea occidentale, per esempio su Le Quotidien de Paris del 24 novembre 1984 e su Le Monde dello stesso giorno.
Come diceva il presidente Reagan a metà novembre del 1984, davanti a un centinaio di amici e di giornalisti, alla Casa Bianca: «Alcuni garantiscono che io sia l’uomo più potente del mondo. Non è vero. Anche qui, tutti i giorni, qualcuno si incarica di decidere ciò che devo fare e ciò che devo dire. L’uomo più potente è lui …». Si trattava di una battuta di spirito? No, piuttosto di una riflessione amara e di un avvertimento a chi vuole intendere. Ronald Reagan aveva creduto di potere sfuggire alle costrizioni a cui erano sottostati i suoi predecessori, fatta eccezione per Jimmy Carter, che se ne era fatto volentieri esecutore. Non vi è riuscito. L’Humanité del 19 novembre 1984, se ne rallegra senza mezzi termini. Facendo riferimento al Journal du Commerce – organo degli ambienti di affari americani, che si era levato qualche giorno prima contro «le sanzioni economiche nei confronti dell’URSS, pregiudizievoli per gli uomini di affari» -, l’organo del partito comunista francese cita J. Giffen, vicepresidente dell’Arcmo Steel – e membro del CFR, il Council for Foreigns Relations -, nonché presidente del Consiglio Americano per il Commercio con l’URSS … che raggruppa duecentotrenta ditte. Si tratta di ditte che si ritrovano nella già citata ACEWA, e i cui presidenti e direttori generali siedono, per la maggiore parte, attorno a David Rockefeller nella Commissione Trilaterale.
L’uomo che decide
Chi dunque, alla Casa Bianca, «decide» le attività e i discorsi di Ronald Reagan? Si tratta di James A. Baker, assistito da Richard Darman, entrambi posti alla direzione della segreteria della presidenza da George Bush, membro della Commissione Trilaterale, in cambio del sostegno di Bush stesso alla campagna presidenziale per lo stesso Reagan …
Si è dimenticato che George Bush si era in un primo momento, nel 1980, presentato contro Ronald Reagan e che si era allineato soltanto a precise condizioni? Si è dimenticato che David Rockefeller diceva, il 1º marzo 1980, al corrispondente del Figaro Magazine, che George Bush era il suo candidato? Se Caspar Weinberger si pone spesso ai margini del gruppo Rockefeller, George Schultz ne è uno dei prodotti, così come lo è William Casey. Schultz e Casey sono rimasti ai loro posti, non su richiesta di Reagan, ma per impedire a Reagan di mettere in una posizione molto elevata Jeane Kirkpatrick, Eva Galbraith – fino a oggi ambasciatrice a Parigi – e di ricostituire attorno a sé una équipe che nel 1980 aveva posti di grande rilevanza decisionale e di controllo, ma due anni dopo non decideva e non controllava più nulla.
Tutto ciò è destinato ad avere conseguenze molto pesanti in questi primi mesi del 1985. Bush, Schultz e McFarlane vogliono affrettare i negoziati con Mosca, tema centrale della campagna che si è svolta da maggio a novembre del 1984 sulla stampa liberal americana, con le firme di George Kennan, di Avrell Harriman e di altri ferventi sostenitori della alleanza con l’URSS, negli anni dal 1941 al 1947, e della distensione con l’URSS dal 1957 e dal 1958, meno di due anni dopo la insurrezione di Budapest. Questi uomini hanno come alleati in Europa sia diversi governi socialistici che dirigenti della importanza di Helmut Khol. Questo significa che, se l’Europa occidentale vuole salvare le sue libertà e levarsi contro una progressiva finlandizzazione, deve cominciare a opporsi senza «distinguo» ai socialisti e ai progressisti che giocano con l’URSS e i suoi satelliti contro Reagan, mano nella mano con i liberal americani.
Reagan non potrà fare nulla senza noi europei. Noi europei non salveremo nulla di nostro affidandoci a persone diverse dai rari osservatori in possesso di elementi per giudicare un gioco truccato, e veramente decisi a opporvisi. Vi è da qualche parte, in Europa, un uomo di partito al corrente di questa problematica e che se ne preoccupi?
Pierre Faillant de Villemarest
Note:
(1) L’elenco dei membri di questa associazione si può trovare nel mio Les sources financières du nazisme, CEI, Cierrey 1984.