Articolo di Roberto Colombo, tratto da Avvenire, del 22 agosto 2018. Foto redazionale
Nel numero del 18 agosto, la famosa rivista medica britannica ‘The Lancet’ dedica un editoriale dal titolo «La Chiesa cattolica contro i diritti della donna in Argentina» alla vicenda della proposta di riforma della legge del 1921 sull’aborto volontario, respinta a maggioranza dai senatori di quel Paese. Nel sottolineare ripetutamente il suo «disappunto» per questa decisione, l’editorialista cita i vescovi argentini e «il cardinale di Buenos Aires», che avrebbe «pontificato sui diritti del feto in una Messa mentre era in corso il dibattito legislativo», esercitando così una indebita «influenza della Chiesa» sul Parlamento di una «Argentina profondamente cattolica». Non risparmia neppure di chiamare in causa papa Francesco, che – a dire dell’autore e senza nessuna fonte citata – avrebbe «personalmente esercitato pressioni [lobbied] sui senatori per incitarli a votare contro la legge» in discussione.
Oltre a questa congettura, nell’editoriale senza firma si contrappone la recente modifica del n. 2267 del Catechismo sulla pena di morte, promulgata dal Santo Padre, alla sua presunta «mancanza di credito nei confronti del progresso dei diritti della donna», arrivando a suggerire il seguente acrobatico parallelismo: poiché «papa Francesco sembra trovarsi a suo agio nel cambiare la dottrina basandosi sulle norme sociali modernizzate», come quelle che «riguardano i diritti dei prigionieri», non vi sarebbe ragione per la quale egli non possa far sì che «la Chiesa cattolica» smetta di «continuare a combattere contro la legalizzazione dell’aborto […], rifiutando i diritti e l’autonomia del corpo delle donne» e gli «interventi per prevenire la gravidanza non desiderata, come l’accesso alla contraccezione e a una educazione sessuale» che includa il ricorso sistematico alla prima e la presa di coscienza dei «diritti riproduttivi delle donne».
La lettura dell’editoriale suggerisce alcune considerazioni.
Anzitutto, la frettolosa leggerezza con la quale viene qualificata come ‘cambiamento della dottrina’ cattolica la nuova redazione del Catechismo, laddove si tratta della pena di morte, non tenendo in debita considerazione che il pronunciamento di papa Francesco esplicita di principio e cristallizza nell’attuale contesto storico dei mezzi di difesa sociale dagli ingiusti aggressori ciò che i suoi predecessori san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano già escluso di fatto come atto ordinario del diritto penale, essendo «ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» i casi che lo esigerebbero veramente (Evangelium vitae,n. 56).
Completamente diverso sarebbe l’impossibile mutamento dell’insegnamento cattolico sulla illiceità dell’aborto procurato ipotizzato dalle colonne di ‘The Lancet’. In quanto «uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita», l’aborto è sempre stato considerato dalla Chiesa «gravemente immorale» (Evangelium vitae,nn. 57-58). E questo anche nei tempi in cui mancavano le attuali esatte e precise conoscenze biologiche sull’inizio e lo sviluppo della vita intrauterina di un uomo o di una donna. A maggior forza, se la Chiesa ora esclude in ogni caso la pena capitale per un colpevole di gravissimi delitti, come potrebbe ammettere la soppressione di un innocente non ancora nato, per qualsivoglia motivo e in qualunque circostanza?
Ammettendo per assurdo, senza per nulla concederlo, che una presunta logica del ‘Papa che può e intende cambiare la dottrina’ in alcuni suoi punti – prospettata dall’editorialista – possa essere invocata da alcuni per suggerire al Santo Padre pensieri in tal senso sull’aborto, sono proprio le stesse parole di papa Francesco, più volte da lui ripetute, ad escludere categoricamente questa supposizione: «L’aborto non è un male minore. È un crimine. […] Ed evidentemente, siccome è un male umano – come ogni uccisione – è condannato» anche dalla Chiesa (17 febbraio 2016).
Infine, nel considerare l’aborto come questione che riguarderebbe solo la intima sfera della «riproduzione femminile» e «i diritti e l’autonomia del corpo delle donne», lo scritto considerato mostra di misconoscere l’identità biologica e la natura umana del concepito, che lo costituiscono, al pari della madre, come un soggetto di fatto e di diritto per la sua vita e come un paziente per la medicina. Questa ‘dimenticanza’ scientifica, antropologica e clinico-ostetrica contrasta con innumerevoli articoli apparsi su autorevoli riviste mediche internazionali, incluso lo stesso ‘The Lancet’ (cf. vol. 358, anno 2001, p. S58), che hanno per titolo o per oggetto «Il feto come paziente».