Il discorso per l’Angelus del 26 settembre “vale” nel caso dell’accoglienza ai rifugiati, ma acquista un senso molto più profondo se rapportato alla missione della Chiesa
di Michele Brambilla
Il 26 settembre Papa Francesco pronuncia l’Angelus della Giornata per il migrante e il rifugiato, coincidente con la XXVI domenica del Tempo ordinario. Piazza S. Pietro è raggiunta da un colorato corteo di 47 nazionalità assistite dalla carità delle parrocchie romane.
Il Papa dà grande rilievo alla Giornata e ripete parole che esortano all’accoglienza dei bisognosi, ma il cuore della sua argomentazione, che prende spunto dalla liturgia del giorno, cerca uno sguardo più profondo. «Il Vangelo della liturgia odierna», infatti, «ci racconta un breve dialogo tra Gesù e l’apostolo Giovanni, che parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli. Essi hanno visto un uomo che scacciava i demoni nel nome del Signore, ma glielo hanno impedito perché non faceva parte del loro gruppo. Gesù, a questo punto, li invita a non ostacolare chi si adopera nel bene, perché concorre a realizzare il progetto di Dio (cfr Mc 9,38-41)».
«Chi non è contro di noi, è con noi», dice ancora Gesù in quella pagina evangelica, pertanto non bisogna averne paura. «Le parole di Gesù svelano insomma una tentazione e offrono un’esortazione. La tentazione è quella della chiusura. I discepoli vorrebbero impedire un’opera di bene solo perché chi l’ha compiuta non apparteneva al loro gruppo. Pensano di avere “l’esclusiva su Gesù” e di essere gli unici autorizzati a lavorare per il Regno di Dio»: un pericolo da evitare assolutamente.
Questo atteggiamento, dice il Pontefice, è profondamente insano. La Chiesa dovrebbe essere porta aperta a tutti, ma anche all’interno della compagine ecclesiale possono sorgere contrapposizioni e “micro-scismi”: «a volte anche noi, invece di essere comunità umili e aperte, possiamo dare l’impressione di fare “i primi della classe” e tenere gli altri a distanza; invece che cercare di camminare con tutti, possiamo esibire la nostra “patente di credenti”: “io sono credente”, “io sono cattolico”, “io sono cattolica”, “io appartengo a questa associazione, all’altra…”; e gli altri poveretti no. Questo è un peccato» che viene dal “divisore” (il verbo greco dia-ballein, da cui prende il soprannome, significa proprio “dividere”) per eccellenza. Allora «chiediamo la grazia di superare la tentazione di giudicare e di catalogare, e che Dio ci preservi dalla mentalità del “nido”, quella di custodirci gelosamente nel piccolo gruppo di chi si ritiene buono: il prete con i suoi fedelissimi, gli operatori pastorali chiusi tra di loro perché nessuno si infiltri, i movimenti e le associazioni nel proprio carisma particolare, e così via», perché «tutto ciò rischia di fare delle comunità cristiane dei luoghi di separazione e non di comunione. Lo Spirito Santo non vuole chiusure; vuole apertura, comunità accoglienti dove ci sia posto per tutti» coloro che cercano sinceramente il Dio cristiano.
Meglio prestare attenzione al monito del Vangelo: stare attenti a non cadere noi stessi nel peccato! «Infatti, il rischio è quello di essere inflessibili verso gli altri e indulgenti verso di noi. E Gesù ci esorta a non scendere a patti col male, con immagini che colpiscono: “Se qualcosa in te è motivo di scandalo, taglialo!” (Mc 9,43-48). Se qualcosa ti fa male, taglialo», affinché non si trasformi nel peso che ti farà sprofondare nella Geenna.
Lunedì, 27 settembre 2021