
Da Avvenire del 28/03/2021
Celebrata nel sangue, a conferma della brutalità del regime e del senso di impunità, nonostante le pressioni internazionali e le prime sanzioni. Ieri la Giornata delle Forze armate è diventata così la «giornata della vergogna », con un record di uccisioni, almeno 114, tra la popolazione civile scesa in piazza sfidando la repressione della dittatura a Yangon, Mandalay e Kyaukpadaung. Anche, però, a Lashio, nello stato Shan, e Kyeikhto, nello Stato Mon segno che la pressione sulle minoranze etniche non è più sostenibile mentre cresce la convergenza di queste ultime con il movimento democratico per contrastare la giunta militare. Nemmeno la minaccia diffusa da radio e televisioni ufficiali venerdì notte che i manifestanti avrebbero rischiato «di essere colpiti alla testa o alla schiena» ha fermato le proteste.
Non si è trattato di un avvertimento a vuoto. Il video, ripreso da una telecamera di sicurezza, ha mostrato soldati che sparavano, non provocati, contro una motocicletta, per poi catturare un viaggiatore ferito mentre altri due a bordo sono riusciti a fuggire. In un altro filmato, un uomo piange mentre cerca di far entrare il cadavere del figlio ucciso nella sua automobile: aveva 5 anni. Un’altra bambina di 13 è anche lei tra le vittime. Una escalation che ha portato a circa 400 il totale degli uccisi dal golpe del primo febbraio e provocato ulteriori condanne, tra cui quella dell’ambasciata statunitense in Myanmar. «Le forze di sicurezza stanno uccidendo civili disarmati, compresi bambini, proprio le persone che hanno giurato di proteggere», si legge su un comunicato postato sul sito della rappresentanza diplomatica. La brutalità sembra sorprendere molti ma, tuttavia, è parte essenziale del ruolo dei militari, inculcato nelle reclute e sempre alimentato, in particolare nei ranghi inferiori. Questi ultimi dal loro ruolo traggono benefici nonché un potere indiscusso e indiscutibile. Condizione che si perpetua dal 1962, quando generali presero il potere senza mai lasciarlo, fingendo dal 2011 di condividerlo con il governo civile e affidando un ruolo centrale a Aung San Suu Kyi dopo un quarto di secolo di lotta nonviolenta. L’errore di prospettiva di molti è stato di credere a un effettivo cambiamento di indirizzo dei militari. I quali sono intenzionati a tenere stretti gli enormi vantaggi accumulati negli ultimi decenni. Le sanzioni imposte nei giorni scorsi da Washington e Londra, le più severe finora, riguardano anzitutto la Myanmar Economic Holdings Public Company Ltd (Mehl) e la Myanmar Economic Corporation Ltd (Mec), holding emanazione delle forze armate che controllano direttamente 106 società e indirettamente un’altra cinquantina, oltre a avere rapporti d’affari con 58 aziende straniere.
Vale la pena ricordare che nel 2017 l’imprenditoria associata alle forze armate ha finanziato con 14,2 milioni di dollari l’espulsione e il genocidio dei Rohingya dallo Stato Rakhine. I provvedimenti che – con le parole del segretario di Stato Antony Blinken – «colpiscono specificamente chi ha guidato il golpe, gli interessi economici dei militari e le fonti che alimentano la repressione» potrebbero risultare ancora una volta di scarsa efficacia. Sia perché gli interessi economici delle forze armate sono fortemente radicati in aree o settori di rilievo strategico (non a caso nel governo a guida civile si sono appropriati dei ministeri delle Frontiere, dell’Interno, del Commercio, oltre a quello della Difesa), sia perché consentono il massimo profitto con la minore visibilità possibile, sfuggendo ai meccanismi di controllo internazionale.
Con le privatizzazioni degli anni Novanta, i militari hanno dato vita a una serie di consorzi (non a caso il generale Min Aung Hlain, capo di stato maggiore delle forze armate, è anche presidente del Mehl e il suo vice nel comando, il generale Soe Win, ne è vicepresidente), avviando iniziative imprenditoriali attraverso le quali hanno messo le mani sui settori più disparati, da quello bancario a quello minerario, dal turismo al tabacco (per non parlare dei traffici di giada, pietre preziose, stupefacenti o dei ricchi dividenti negli investimenti cinesi, thailandesi e di altra origine). Difficile quantificare il flusso di denaro nelle tasche degli uomini in divisa, anche se un un rapporto riservato indica come tra il 1990 e il 2011 solo Mehl abbia distribuito dividendi per 14 miliardi di euro.
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