di Marco Invernizzi
Quando qualcosa non va verso le “magnifiche sorti e progressive”, il mondo ostile alla vita e alla famiglia si mobilita, quanto meno per esprimere il proprio risentimento. Il 22 agosto la Repubblica ha ospitato in prima pagina niente meno che Mario Vargas Llosa, lo scrittore peruviano premio Nobel per la letteratura nel 2010, passato da posizioni comuniste a un liberalismo più politicamente corretto. Il suo intervento sul quotidiano italiano riguarda il recente rifiuto del Senato argentino di legalizzare l’aborto. Scandalo e sconcerto, e così d’improvviso riemergono tutti i luoghi comuni che 40 anni fa avevano accompagnato l’introduzione della legge 194 in Italia, quella che nel 1978 legalizzò l’aborto qui da noi.
Lo scrittore si dice convinto che presto anche l’Argentina vedrà la luce della legalizzazione dell’aborto, che quanto avvenuto in Senato è stato un incidente, ma che “l’oscurantismo” sostenuto dalla Chiesa non dovrebbe prevalere a lungo. Perché intendiamoci l’aborto non si fa a cuor leggero, dice lo scrittore, ma non si può non permettere alle donne di decidere, soprattutto non si deve impedire alle donne povere di avere lo stesso diritto di uccidere che possono permettersi le argentine ricche, andando all’estero o pagando di più e ottenendo maggiore sicurezza in patria.
È la solita canzone che si ripete, con l’aggiunta di un violento attacco alla Chiesa cattolica, che avendo fra le sue fila uomini che si sono macchiati di gravi reati sessuali, “dovrebbe essere meno intollerante e inflessibile” sul tema dell’aborto, come se ci fosse un legame fra le due cose.
Speriamo che Vargas Llosa si sbagli e che l’Argentina riesca a resistere. Tuttavia una riflessione sull’Italia la dobbiamo fare, proprio per potere un domani assistere anche da noi a un riconoscimento pubblico della sacralità della vita. I luoghi comuni che portarono alla vittoria abortista nel referendum del 1981 devono ancora essere smontati. La battaglia per la sacralità della vita, sempre e comunque, si vince anzitutto nei cuori delle persone, proponendo, mostrando, convincendo, accostando le persone una per una, avendo cura di parlare loro con pazienza, ascoltando i loro problemi inerenti alla eventuale decisione di abortire ( se ce ne sono) e mostrando la straordinaria bellezza di una vita che nasce, nonostante le difficoltà anche quando fossero tante e gravi. La battaglia per la vita è anzitutto una battaglia culturale che può essere vinta soltanto se le ragioni della vita verranno presentate negli ambienti dove molti si formano le proprie opinioni, la scuola anzitutto, e tenendo conto che i giovani che le frequentano sono lontani “anni luce” dallo scontro fra pro-life e pro-choice, fra sostenitori della vita e abortisti che ha attraversato la storia italiana degli ultimi 50 anni.
Poi verrà anche il tempo della politica e si potrà cercare di promuovere una legislazione che protegga e favorisca la vita nascente. Ma solo dopo un profondo lavoro culturale che aiuti le persone a ritornare al reale, a riconoscere al concepito il diritto di vivere a prescindere dalle condizioni sociali o economiche in cui potrebbe venirsi a trovare e ad aiutare le donne ad amare la creatura che portano in grembo. Non è un lavoro facile, ma è possibile. Molti, anche fra i cattolici, hanno smesso di farlo in pubblico per la paura di trovarsi di fronte chi ha abortito o i parenti di chi lo ha fatto. Ovviamente succederà sempre più spesso, per esempio in una classe o in un qualsiasi ambiente pubblico. Non sarebbe giusto se ci lasciassimo condizionare da queste situazioni e rinunciassimo a dire la verità. Bisogna però trovare le parole giuste, rispettose delle persone che hanno sbagliato. Per questo è importantissimo il richiamo al perdono e quella “politica della Misericordia” che anima il Magistero della Chiesa sul punto da san Giovanni Paolo II a oggi.
Due generazioni ormai sono passate dopo la rivoluzione culturale del 68 che ci ha portato nella cultura della morte, la morte dei legami matrimoniali col divorzio, la morte dei concepiti con l’aborto, la morte di sé con la droga. Tutti portiamo i segni di questo cambiamento d’epoca.
Per uscirne non bastano iniziative politiche o appelli per quanto nobili ed efficaci, né possiamo immaginare di continuare a giudicare e denunciare come se il mondo non fosse cambiato, come se vivessimo in una continua campagna referendaria.
Per uscirne i cattolici devono farsi carico di questo “mondo di morte”, amando i contemporanei ancora di più se possibile, come insegnava il beato Paolo VI, certamente per aiutare a cambiare direzione, per andare verso la vita, ma tenendo conto del punto di partenza.
Venerdì, 24 agosto 2018