di Vladimir Rozanskij da AsiaNews del 11/11/2020
A Erevan vi è stato l’assalto del parlamento e le violenze alla casa del premier Pašinyan. A Baku si festeggia con caroselli di trionfo. Turchia e Russia si orientano per il “modello siriano” di comune controllo del territorio. Già pronti 10 aerei Iljušin-76, per trasportare le truppe dei “pacificatori”. In tutto saranno dislocati circa 2000 soldati.
Mosca (AsiaNews) – L’accordo di pace concluso ieri tra Armenia e Azerbaijian, con la mediazione russa, appare più che altro una resa degli armeni, e una vittoria strategica della Turchia, che ha ottenuto quello che voleva fin dall’inizio del conflitto: entrare direttamente nel Caucaso del sud da protagonista. Per le strade di Baku si sono svolti caroselli di trionfo, mentre gli armeni hanno addirittura assalito il palazzo del parlamento e del governo di Erevan.
In Russia sono già atterrati 10 aerei Iljušin-76, per trasportare le truppe dei “pacificatori”. In tutto saranno dislocati circa 2000 soldati, 80 mezzi corazzati e 380 mezzi di trasporto con tecnologie specializzate in controllo del territorio. Il presidente azero Ilham Aliev ha anche dichiarato che la missione di pace in Nagorno Karabakh sarà composta da forze miste, russe e turche. La Turchia aveva ingaggiato nel conflitto diversi mercenari stranieri, combattenti in Siria per l’Isis, che verosimilmente rimarranno sul territorio. Anche se la Turchia non ha preso parte direttamente alle trattative, da Ankara sono giunte dichiarazioni di appropriazione della vittoria, come quella del ministro degli esteri turco Mevljut Chavushoglu, secondo cui “l’Azerbaigian ha ottenuto un grande successo sul campo di battaglia e al tavolo delle trattative, e io mi congratulo di tutto cuore con questo successo”.
Il primo ministro armeno Nikol Pašinyan ha dichiarato di aver accettato l’accordo “con grande sofferenza”, anche se di fatto gli armeni hanno comunque ottenuto un risultato significativo, conservando una parte cruciale del territorio a maggioranza armena riconquistato già 20 anni fa e dichiarato “Repubblica del Nagorno Karabakh”, con l’esclusione della città di Shusha. I maggiori sforzi di Pašinyan sono rivolti a persuadere i propri connazionali che “non si tratta di una sconfitta”, perché i patti sottoscritti erano l’unica possibilità per conservare il controllo sulla città di Stepanakert e del corridoio di Lachinsk. “Mi inginocchio davanti ai nostri morti, e mi inchino a tutti i nostri soldati… con il loro sacrificio essi hanno salvato gli armeni dell’Artsakh”, ha scritto su Facebook il premier, usando il nome armeno del Karabakh.
Lo status-quo raggiunto non è quello da tempo indicato negli “accordi di Minsk” dell’Ocse, sotto la supervisione di Russia, Francia e Stati Uniti, ma quello stabilito dalla Russia, che ha preso su di sé tutta la responsabilità dell’accordo, e che assegna all’Azerbaigian un territorio molto più esteso di quello del testo di Minsk. La città di Shusha e i suoi dintorni, del resto, erano già stati perduti dagli armeni fin dal 5 novembre: lo ha rivelato lo stesso presidente della repubblica armena del Nagorno Karabakh (Artsakh), Araik Arutjunyan, e il 7 novembre le forze armene avevano totalmente abbandonato la città.
Gli armeni infuriati per l’accordo hanno aggredito il presidente del parlamento, Ararat Mirzoyan, che è stato picchiato dai dimostranti, dopo averlo estratto dall’automobile in cui cercava di allontanarsi. È stata assalita anche la residenza del premier Pašinyan, con furti e devastazioni; il primo ministro della “rivoluzione dei fiori” dello scorso anno è oggi subissato dalle critiche provenienti da tutte le formazioni politiche e sociali del paese, compresa la Chiesa Apostolica del katholikos Karekin II. Pašinyan si è difeso asserendo di aver dovuto correre al tavolo delle trattative, dopo che “coloro che vogliono le mie dimissioni si erano ritirati i giorni precedenti da Shusha”.
Gli accordi di pace appaiono comunque piuttosto fragili; il presidente azero Aliev ha dichiarato più volte di volersi riprendere l’intero Nagorno Karabakh, e con ogni probabilità attenderà il momento per riprendere il conflitto, essendo il patto firmato privo di una prospettiva temporale a lungo periodo. Anche in Armenia ci si aspetta una nuova crisi politica, col tentativo di condizionare o sostituire Pašinyan in direzione bellico-nazionalista. La Turchia e la Russia si orientano per il “modello siriano” di comune controllo del territorio, dove peraltro non agiscono forze di pace, ma eserciti veri e propri.
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