Da Avvenire del 03/12/2020
Ognuno di noi desidera realizzare nella vita qualcosa di unico e di personale, e sente che la sua felicità dipende dalla riuscita o dal fallimento di questo compito; a questo compito possiamo dare nomi diversi, ma la parola che usiamo per definirlo cambia in modo radicale il nostro modo di affrontare la vita.
La prima parola possibile è “vocazione”. In questa parola è contenuta l’idea di una chiamata: qualcosa o Qualcuno ci interpella e la nostra vita si realizza rispondendo a questo appello. Essere felici vuol dire impegnare le nostre capacità perché si realizzi ciò che solo a noi, con le nostre caratteristiche specifiche, è dato realizzare. Per questo nell’idea di “vocazione” è contenuto anche il pensiero che il baricentro vitale non sia collocato tanto sull’io, quanto piuttosto su ciò che dall’io e dalla sua creatività può scaturire: l’opera che riusciamo a compiere, le relazioni che riusciamo a far vivere, il figlio che attraverso di noi ha potuto nascere. Nell’idea di “vocazione” è sempre in qualche modo presente anche un “noi”, un’idea di comunità.
La seconda parola, di gran lunga oggi la più utilizzata, è ”autorealizzazione”.
È una parola che non implica la risposta a una chiamata o a un compito, ma contiene piuttosto l’idea che la felicità dipende dal successo che riusciamo a ottenere: la persona meglio realizzata è quella capace di avere più visibilità e più denaro; in campo affettivo, quella capace di ottenere più amore. Anche secondo questa logica mettere a frutto le proprie risorse è una cosa importante; ma in questo caso l’accento è posto soprattutto su di sé e sulla propria soddisfazione: nell’idea di “autorealizzazione” il “noi” è secondario e l’idea di comunità inessenziale.
Anche nella vita affettiva e di coppia, l’idea che abbiamo della felicità (come risposta a una vocazione o come auto-realizzazione) comporta una differenza essenziale di prospettiva, che cambia il modo di affrontare le vicende buone e meno buone del nostro rapporto.
Quando ci sposiamo facciamo una cosa unica e singolare: decidiamo cioè di scegliere un compagno/a che da quel momento in poi potrà camminare con noi per sempre, fino alla fine del nostro percorso. Il matrimonio rappresenta una scelta vocazionale molto forte, perché se accettiamo di viverlo la nostra chiamata specifica alla felicità si declinerà attraverso quell’incontro, con quella particolare persona che arriva da una storia profondamente diversa dalla nostra.
Non è facile cogliere fin dall’inizio la portata di questa differenza, perché quando ci innamoriamo vediamo soprattutto quello che ci unisce e ci avvicina: vediamo la parte del volto che l’altro ha rivolto con amore verso di noi. Ma l’altro è sempre oltre ciò che vediamo: è diverso, è sé stesso; la sua vita è iniziata prima del “noi” e continua anche al di là del “noi”. È una libertà che ci cammina a fianco, una totalità mai del tutto conosciuta.
Camminare insieme non significa abbandonare la ricerca del nostro compito personale; da quel momento in poi però la vocazione di ciascuno si declinerà in un modo nuovo, di cui l’altro farà sempre parte. Con e attraverso di lui (lei) siamo sfidati a diventare noi stessi in modo diverso; con e attraverso di lui (lei) possiamo diventare padre o madre; con e attraverso di lui (lei) possiamo costruire una realtà nuova che ci trascende: una famiglia nostra, con caratteristiche che solo noi insieme potremo darle. Con qualsiasi altra persona, ciascuno di noi darebbe vita a qualcosa di completamente diverso.
Qualcosa di migliore? Non lo so. So però che la “vocazione”, così come ho cercato di definirla, non è un’ipotesi astratta, ma un percorso di vita molto concreto, che prende forma a partire da ciò che siamo e da ciò che ci accade. La nostra felicità possibile dipende da questo, e la nostra creatività può e deve applicarsi proprio qui, nel luogo preciso nel quale ci troviamo storicamente a vivere.
Foto da ilmessaggero.it