Da La bianca Torre di Etchelion del 01/02/2018. Foto da articolo
Una velina di regime ha asfaltato i media statunitensi, prontamente scopiazzata dai media italiani a cominciare dall’ANSA. Una velina che purtroppo ha contagiato persino i media “buoni”. “Il Senato contro Trump”: titolo monocorde e monotono. Il tema è la proposta di legge al Senato federale che, se finalmente approvata, negli Stati Uniti d’America impedirebbe l’aborto dopo la 20esima settimana di vita del bambino innocente che certe madri scelgono di sopprimere nel proprio grembo. Martedì 30 gennaio non è passata, ma la verità è diversa da come viene raccontata. Nessun Senato si è schierato contro Trump. Anzi. Piuttosto, contro la legge a favore della vita promossa dal Partito Repubblicano, e sempre sostenuta da Donald J. Trump sia da candidato sia ora da presidente, si è invece schierata la maggioranza dei senatori del Partito Democratico che, pur essendo complessivamente minoranza nell’aula, ha vinto. Spieghiamoci.
L’antefatto è che il 3 ottobre la Camera federale ha approvato con 237 voti a favore e 189 contrari il divieto di praticare aborti su bambini non ancora nati che possano provare dolore, ovvero oltre la 20esima settimana di vita. Oltre agli Stati Uniti solo sei altri Paesi del mondo permettono una cosa simile: Canada, Cina, Corea del Nord, Paesi Vassi, Singapore e Vietnam. La legge si chiama Pain-Capable Unborn Child Protection Act, fu proposta dal deputato Repubblicano dell’Arizona Trent Franks ed è passata con il favore anche di tre deputati del Partito Democratico, mentre due Repubblicani votarono contro. Numeri analogamente favorevoli alla legge furono espressi dalla Camera nel 2013 e nel 2015, ma tutto si è poi sempre fermato al Senato, che ha costantemente rigettato la proposta. Per questo, dopo il citato voto favorevole dato per la terza volta dalla Camera il 3 ottobre, il senatore Repubblicano Lindsay Graham del South Carolina ha regolarmente riproposto tutto per l’ennesima volta al Senato il quale per l’ennesima volta ha appunto respinto.
Cosa però ha avuto il potere di bocciare la maggioranza della minoranza Democratica al Senato martedì? Non la proposta di legge Graham in quanto tale, ma la proposta che il Senato potesse finalmente votare il testo di tale proposta di legge mettendo alla buon’ora fine al perditempo che viene chiamato discussione parlamentare. La Norma XXII delle Standing Rules of the Senate ‒ il regolamento dell’aula ‒ richiede infatti almeno i tre quinti dei voti, cioè 60 su 100, per porre fine alla discussione su una proposta di legge e andare al voto. Se martedì si fossero quindi raggiunti i 60 voti necessari, il Senato avrebbe dunque votato direttamente la proposta di legge e questa sarebbe stata certamente approvata. Niente più aborto tardivo.
Come si può affermarlo con sicurezza? Lo si può affermare con sicurezza perché martedì 51 senatori hanno votato per passare al voto mentre 46 hanno votato contro. Ora, è ovvio che i 51 senatori che hanno votato affinché l’aula potesse votare lo hanno fatto per poi votare sì alla proposta di legge Graham, mentre chi ha votato contro lo ha fatto solo per sciogliere la sconfitta nell’acido delle chiacchiere.
I senatori federali sono complessivamente 100. Attualmente in aula siedono 51 Repubblicani, 47 Democratici e due “indipendenti” indistinguibili dai Dem. Martedì in aula erano presenti 97 senatori: 50 Repubblicani e 47 Democratici. Tra i primi mancava John McCain, tra i secondi erano assenti Tammy Baldwin e Bill Nelson. McCain è generalmente pro-life e la sua assenza in aula è stata dovuta alla battaglia contro il cancro che sta conducendo a casa sua in Arizona. Manca da dicembre e non è chiaro se rientrerà mai. Invece Baldwin ‒ la prima senatrice, eletta nel 2012, lesbica dichiarata ‒ e Nelson, che già votarono contro la medesima proposta nel 2015, provengano da “Stati in bilico” (rispettivamente Wisconsin e Florida) che Trump ha conquistato nel 2016 e che nelle elezioni “di medio termine” del 6 novembre prossimo affronteranno ancora il giudizio delle urne.
I 51 pareri favorevoli ad arrivare al voto sulla proposta di legge pro-life sono stati espressi da 48 Repubblicani e da tre bravi Democratici: Joseph Donnelly, Robert Casey e Joseph Manchin. Lo avevano fatto pure nel 2015. Come scrivono furenti i liberal, «sono gli unici senatori Democratici ancora in carica che si oppongano all’aborto». Ai Repubblicani è mancato invece il supporto di due mele marce di vecchia conoscenza, Susan Collins e Lisa Murkowski, le solite che non perdono un colpo. Vittoria insomma netta.
Ma se nell’aula fossero stati presenti i senatori mancanti martedì il risultato avrebbe potuto essere diverso? No. Se per ipotesi i tre mancati avessero votato tutti contro la proposta di legge Graham (qualora si fosse appunto votato quella), l’esito sarebbe stato 51 a 49. Vittoria comunque. Come detto, però, McCain avrebbe votato a favore: quindi l’esito sarebbe stato 52 a 48. Più che vittoria.
Il quorum però non è stato raggiunto e così la minoranza ha leninianamente trionfato. Come dice a La nuova Bussola Quotidiana Austin Ruse, presidente del Catholic Family and Human Rights Institute di Washington e New York nonché uno dei consiglieri cattolici di Trump, è uno scandalo, e lo è soprattutto perché contro hanno votato pure dei senatori cattolici, i Democratici Maria Cantwell, Dick Durbin, Kirsten Gillbrand, Heidi Heitkamp, Tim Kaine, Patrick Leahy, Ed Markey, Catherine Cortez Masto, Claire McCaskill, Bob Menendez, Patty Murray e Jack Reed, più le succitate celebrity Repubblicane Collins e Mukowski. Per il card. Timothy M. Dolan, ex primate e oggi presidente della Commissione sulle attività pro-life della Conferenza episcopale statunitense, il voto di martedì è «terrificante» e per Trump, in un comunicato ufficiale della Casa Bianca, «deludente» soprattutto perché, dice, in Senato siede una maggioranza bipartisan a favore della vita.
Alcuni pro-lifer puntano il dito contro le regole che garantiscono la possibilità di ostruzionismo al Senato, dicendo che se i Repubblicani davvero volessero, le aggirerebbero grazie alla maggioranza dell’aula di cui godono. È quella che in gergo si chiama “opzione nucleare”: la pietra tombale sull’ostruzionismo parlamentare. Però non è così. Per eliminare la necessità dei 60 voti che mettano fine al dibattito parlamentare occorre modificare la citata Norma XXII. Ma la stessa Norma XII stabilisce che per apportare tale modifica sono necessari i due terzi dei voti senatoriali, cioè 67. Su una questione tanto combattuta come l’aborto, i Repubblicani del Senato oggi non hanno i numeri richiesti per l’“opzione nucleare”. Quell’extrema ratio è stata del resto esercitata solo in due casi: lo fece il Senato a maggioranza Democratica del 113° Congresso federale il 21 novembre 2013 e quello a maggioranza Repubblicana del 116° Congresso federale (l’attuale) il 6 aprile 2017 in entrambi i casi per giungere al voto di conferma su nomine presidenziali di giudici federali (nel secondo caso fu la conferma del giudice Neil Gorsuch scelto da Trump per la Corte Suprema federale). Sono eccezioni. Difficili. Sempre controverse. E oggi numericamente impraticabili per i Repubblicani.
Del resto, se anche i Repubblicani godessero dei numeri necessari, cambiare per sempre il regolamento sarebbe controproducente. Qualora infatti il Senato dovesse passare di mano, l’ostruzionismo sarebbero un’arma impagabile, una delle poche, che i Repubblicani avrebbero a disposizione per ostacolare le malefatte Democratiche.
Resta però, fortissimo, lo smacco: la democrazia statunitense ha subito un vulnus gravissimo, permettendo che il voto pro-life del Senato venisse scippato. L’unica vera speranza è che in novembre, quando un terzo degli Stati Uniti voteranno per rinnovare parte del Senato, i Repubblicani possano ottenere un successo così grande da spazzare ogni ubbia di quorum e di conseguenza l’aborto tardivo. Lo sforzo titanico che i Repubblicani dovranno compiere dovrà però passare attraverso una sapiente azione di marketing e di public relation che sappia raccontare bene all’elettorato anche le “sconfitte inesistenti” e le verità che le veline di regime offuscano. Vale a dire che la maggioranza bipartisan del Congresso statunitense (la Camera che si è espressa in ottobre e il Senato che si è espresso martedì) e la Casa Bianca sono pro-life. E sperare pure che l’esiguo elettorato Democratico che ancora comunque esiste possa ampliare la risicata pattuglia dei propri eletti pro-life nella Camera alta del Paese più importante del mondo.
Marco Respinti