MAURO RONCO, Quaderni di Cristianità, anno II, n. 4, primavera 1986
L’aborto in quattro paesi dell’Europa Occidentale: legislazione e cause
I. La diffusione delle legislazioni permissive nei vari paesi
I. Introduzione
La tutela giuridica della vita umana fin dal suo sorgere nel grembo materno ha subìto, negli ultimi decenni, un impressionante declino nelle legislazioni di un elevatissimo numero di Stati, quasi a significare che la società e l’uomo contemporaneo rifiutano di provvedere alla tutela e alla trasmissione dei valori più profondi, che esprimono e custodiscono la dignità della persona umana (1).
Dalla metà degli anni Cinquanta, infatti, il mondo intero è stato percorso e travolto dall’ideologia abortistica, che, abilmente e insistentemente propagandata, si è tradotta via via in provvedimenti di tipo legislativo nei singoli paesi, con lo scopo di rendere «legittima» l’interruzione volontaria della gravidanza e di facilitarne in ogni modo la diffusione.
Il processo di liberalizzazione normativa dell’aborto non è stato casuale, né è stato determinato dall’emergere di particolari necessità sociali all’interno delle singole aree di volta in volta interessate alla riforma legislativa, come talora si è voluto far credere dalla propaganda abortista, che ha ricollegato l’esigenza di liberalizzazione all’insorgere acuto di gravi problemi per la vita delle donne provocati dalla pretesa normativa volta a far si che la gravidanza iniziata venga portata al termine naturale e fisiologico della nascita.
Tale processo, invece, come si può evincere dallo studio comparatistico del progressivo modificarsi delle legislazioni nei vari paesi, appare guidato da una logica implacabile, ispirata alla tesi secondo la quale deve essere riconosciuta alla donna, da cui dipende in modo radicale la sopravvivenza dell’embrione, la facoltà di provocarne la distruzione così come quella di lasciarlo vivere.
La realtà che il feto è persona non viene contraddetta, bensì messa in disparte: si afferma dappertutto l’esistenza del «diritto» della donna a una decisione «libera» con base in una ontonomia per cui è essa stessa a dettare le leggi all’esistente, e non lo statuto ontologico dell’essere a incanalare e a orientare il suo contegno secondo la norma che porta inscritta in sé stessa. Anche dove è stato dispiegato, come nella Germania Federale, un apprezzabile sforzo scientifico allo scopo di basare la legislazione sul fondamento delle leggi dell’essere, gli sviluppi successivi hanno ugualmente condotto alla prevaricazione delle maggioranze sulla realtà dello statuto ontologico del nascituro, che è persona e, in quanto tale, deve essere tutelato nel suo essenziale diritto alla vita.
Ripercorrere, sia pure per sommi capi, il processo di modificazione delle legislazioni non appare inutile, giacché consente di cogliere la unitarietà del disegno ideologico che ha sovrainteso nei vari paesi all’introduzione di normative permissive.
2. La riforma nei paesi in cui il socialismo è al potere
Estremamente significativa appare la circostanza che punto di partenza della liberalizzazione dell’aborto volontario in questo secondo dopoguerra è stata la riforma promulgata dall’Unione Sovietica, che si attribuisce il titolo di guida della Rivoluzione mondiale.
Già nel 1920, tra i frutti più significativi della Rivoluzione comunista, era stata approvata nella stessa Unione Sovietica una legislazione permissiva. Come ricordano gli storici dell’evoluzione della famiglia in quello Stato, la motivazione della riforma deve essere ricondotta all’intento di garantire alle donne libertà e uguaglianza sociale. Vladimir Ilyich Lenin, in particolare, aveva insistito sul fatto che si sarebbe dovuto riconoscere alle donne il «diritto» di «decidere da loro stesse la linea fondamentale della propria vita».
D’altra parte, come nota Rudolf Schlesinger, dal momento che le donne erano state vivamente esortate a entrare a far parte della forza-lavoro, appariva perfettamente logico che si provvedesse a fornire loro i mezzi per controllare la propria fertilità (3). La teoria dominante nel partito comunista era che, non appena le condizioni sociali avessero consentito di diminuire il peso della figliolanza, gli aborti si sarebbero via via resi meno necessari e il problema sarebbe quasi cessato di esistere. Ma, nonostante le intense campagne per la diffusione della contraccezione e le misure per «liberare» le donne dal peso dell’educazione dei figli, il problema dell’aborto, soprattutto in città come Mosca o come Leningrado, diventa durante gli anni Venti di portata tale che i vecchi membri del partito comunista lo definivano «massiccio» e «orribile». Le donne si risolvevano all’aborto per poter svolgere l’attività lavorativa: il lavoro fuori casa, d’altra parte, era propagandato presso di loro come un ideale rivoluzionario. In realtà, le donne erano sospinte a fare una scelta tra la maternità e l’uguaglianza sociale (4). All’inizio degli anni Trenta, il governo dei soviet comincia a manifestare allarme per l’alto numero degli aborti e in particolare per il fatto che essi favoriscano una crescente indifferenza delle donne nei confronti delle responsabilità familiari (5), evidenziata dal numero elevatissimo di bambini senza famiglia, cui le istituzioni pubbliche non erano in grado di provvedere (6).
Nel quadro delle campagne poste in essere nel corso degli anni Trenta per rinsaldare legami familiari e sociali, frantumati dal primo decennio di esperienza rivoluzionaria, l’aborto volontario è nuovamente considerato illegale a partire dal 1936, eccetto quello praticato su indicazione medica.
Ma nel 1955, cessate le emergenze di tipo demografico e militare, l’Unione Sovietica approva di nuovo una legge ampiamente permissiva dell’aborto, motivata in modo esplicito dal principio che la donna avrebbe il «diritto» di determinare le dimensioni della propria famiglia e che l’interruzione volontaria della gravidanza costituirebbe uno strumento legittimo per realizzare un siffatto scopo (7).
La ragione della riforma sovietica è stata individuata nella rinnovata enfasi posta dal potere pubblico sull’«ideale» che aveva condotto alla liberalizzazione del 1920, cioè l’autodeterminazione della donna a decidere se avere o non avere un figlio (8).
L’effetto della riforma è stata la crescita vertiginosa del numero degli aborti. Secondo le ricerche di K. H. Mehlan — pubblicate nel 1968 —, dopo la riforma gli aborti superano di gran lunga i nati al punto che, negli anni Sessanta, quasi tre gravidanze su quattro si concludevano con la distruzione del feto (9).
La legge abortista sovietica costituisce il modello per gli altri paesi dell’Est europeo: la Polonia, la Bulgaria, la Romania e l’Ungheria introducono un sistema permissivo nel 1956, la Cecoslovacchia nel 1958, la Jugoslavia nel 1960 (10).
In tutte queste nazioni — e soprattutto in Ungheria e in Romania, ove per molti anni il numero degli aborti è superiore a quello dei nati (11) — le leggi permissive, accompagnate dall’introduzione di una serie di piani governativi per la diffusione su larga scala della contraccezione, portano alla sensibile diminuzione del tasso di crescita della popolazione (12).
3. La riforma in Gran Bretagna
Se il processo di realizzazione rivoluzionaria è particolarmente evidente nelle nazioni sotto dominio comunista — per la più rigida drasticità dell’operazione compiuta e per la minore ricchezza di mediazioni culturali di cui si ammanta l’ideologia abortistica in quei paesi — anche nell’Occidente europeo può individuarsi, dall’inizio degli anni Sessanta fino a oggi, una costante tendenza a realizzare, tramite l’introduzione di leggi permissive, il mutamento della mentalità corrente in ordine alla rilevanza sociale della famiglia e il compito prioritario ed essenziale della donna nell’educazione dei figli.
Significativo è il fatto che, proprio quando sarebbe stato possibile, tramite la conoscenza degli accadimenti dei paesi socialisti, rendersi conto sperimentalmente che le leggi abortiste costituiscono lo strumento più efficace di controllo delle nascite, in funzione di un mutamento strutturale della società, comincia in Occidente — appunto all’inizio degli anni Sessanta e concertato nei vari paesi — il movimento per la riforma delle legislazioni.
E in Occidente la resistenza dell’opinione pubblica di formazione cattolica e conservatrice costringe i riformatori, soprattutto all’esordio del processo di liberalizzazione, a insistere sulle tematiche di tipo medico ed eugenetico, in un quadro di affettata preoccupazione per la salute fisica e psichica delle donne, che potrebbe essere messa in pericolo dalla protrazione della gravidanza in tutta una serie di situazioni di difficoltà, come se il progresso della medicina e della chirurgia non avesse ampiamente diminuito i rischi della maternità e come se la legislazione dei vari paesi già non fosse idonea a escludere ogni conseguenza di tipo sanzionatorio nel caso di interruzione della gravidanza provocata in condizione di necessità per salvaguardare la vita o la salute della donna.
Esprime perfettamente lo stato di avanzamento, negli anni Sessanta, dell’ideologia abortistica in Occidente la riforma della legislazione approvata in Gran Bretagna nel 1967 dal parlamento, su proposta del deputato liberale David Steel (13). Il British Abortion Act di quell’anno esclude, infatti, la violazione della legislazione sull’aborto nei casi in cui la gravidanza sia stata interrotta da un medico abilitato all’esercizio della sua professione e altri due medici, ugualmente abilitati, abbiano espresso «in buona fede» il parere: a. che il proseguimento della gravidanza comporterebbe pericolo di vita per la gestante, o danno alla salute fisica o psichica della stessa o di figli viventi, più grave del pericolo o del danno causato dall’interruzione; b. che sussiste il fondato pericolo che il nascituro possa essere affetto da anomalie fisiche o psichiche tali da determinare una minorazione grave. La legge stabilisce altresì che, nella decisione relativa ai pericoli inerenti al proseguimento della gravidanza individuati alla lettera a, si debba tenere conto dell’ambiente di vita, attuale o futuro, della gestante (14). La normativa britannica può oggi considerarsi — almeno in via teorica — tra le più restrittive, giacché esclude la punibilità dell’aborto soltanto nei casi in cui ricorrano le indicazioni «medica» ed «eugenetica», senza che dispieghi alcuna rilevanza la cosiddetta indicazione «sociale», che l’esperienza formatasi presso altre legislazioni ha mostrato essere una sorta di «clausola generale» per ammettere indiscriminatamente la praticabilità dell’aborto.
Sul piano pratico, tuttavia, occorre sottolineare che l’applicazione della legge secondo la sua ratio restrittiva si affida interamente a una «buona fede» — «good faith» — difficilmente sindacabile, in cui dovrebbe formarsi l’opinione dei due medici che debbono attestare la sussistenza delle condizioni che escludono la punibilità.
D’altra parte, come più sopra ho messo in luce, la riforma britannica riveste grande importanza nel processo di diffusione delle leggi permissive, perché dimostra che era possibile, anche nell’Occidente cristiano, scalfire il principio dell’intangibilità della vita umana innocente.
4. La riforma in Francia
Nel 1974 e nel 1975 vengono approvate drastiche leggi di riforma della disciplina dell’aborto nella Germania Federale e in Francia, entrambe statuenti il principio della «liceità» dell’interruzione della gravidanza praticata volontariamente entro determinati termini temporali. Mentre la legge tedesca è stata dichiarata incostituzionale nel 1975, come si vedrà più oltre, la legge francese è tuttora vigente.
Contro la resistenza dei difensori della vita del nascituro, che è persona e in quanto tale deve essere protetto dalla legge, il legislatore francese dichiara di voler compiere opera di pragmatismo, per combattere, attraverso la legge permissiva, il male maggiore degli aborti clandestini. Il professor Roujou de Boubée, riecheggiando, in un saggio pubblicato subito dopo l’approvazione della legge, gli argomenti utilizzati in parlamento dal ministro della Sanità dell’epoca, Simone Veil, osservava che la «filosofia» della normativa era tutta impregnata di pragmatismo e che, essendo l’aborto un male diffuso, occorreva adottare una tattica liberale che portasse a organizzare, di contro agli aborti illegali, una categoria di aborti «leciti» (15).
Per rendere meno dura l’opposizione parlamentare, il governo adotta l’espediente di porre un termine di cinque anni alla vigenza della legge, dopo il quale si sarebbero dovuti controllare gli effetti della riforma (16).
Al di là dei «giustificazionismi» prospettati dal legislatore e dai suoi sostenitori, e scendendo ai contenuti normativi, occorre dire che la riforma francese prevede due fattispecie generali di aborto «legale». La prima ipotesi presuppone semplicemente che lo stato di gravidanza abbia posto la donna in una «situazione di difficoltà», una «situation de detresse»: l’aborto è «lecito» purché l’interruzione sia praticata da un medico prima della fine della decima settimana di gravidanza (ora art. 162-1 del Codice della Sanità). La seconda ipotesi è quella individuata da un motivo terapeutico. In siffatto caso l’aborto può essere praticato in ogni momento della gravidanza, purché due medici attestino, dopo esame e discussione, che il proseguimento della gravidanza metterebbe in pericolo grave la salute della donna, ovvero che sussista una forte probabilità che il nascituro sia affetto da una anomalia di particolare gravità riconosciuta come incurabile al momento della diagnosi (art. 162-12 del Codice della Sanità) (17). Come si può constatare, la normativa francese è particolarmente liberale a favore dell’aborto e prescinde completamente, per il periodo delle prime dieci settimane della gravidanza, dall’esistenza di una qualsivoglia indicazione, riconoscendo alla volontà della donna, che alleghi semplicemente una situazione di difficoltà, la piena disponibilità della vita del concepito.
5. La riforma nella Germania Federale
Particolarmente tormentata è la vicenda attraverso cui la Repubblica Federale di Germania perviene a darsi una legislazione permissiva dell’aborto volontario.
Il paragrafo 218 del codice penale — rimasto invariato dalla promulgazione del codice penale per il Reich tedesco del 15 maggio 1871 — puniva incondizionatamente l’interruzione della gravidanza provocata volontariamente, salvo il ricorrere di un’ipotesi sopralegale di stato di necessità, quando esistesse un pericolo serio per la vita o la salute della donna incinta.
Nel periodo della dominazione nazionalsocialista il paragrafo 10 a della legge per la purificazione della razza — Erbgesundheitsgesetz, del 26 giugno 1935 — introduce, con il pretesto della cosiddetta «salute del popolo», la «Volksgesundheit», la «giustificazione» dei casi di aborto sorretti dall’indicazione «eugenetica».
Dopo l’abolizione di quest’ultima disposizione nel 1945, l’aborto volontariamente provocato viene considerato penalmente illecito, salvo il caso dello stato di necessità che ho più sopra ricordato. Nel 1974, dopo accesi dibattiti a livello scientifico e politico (18), il parlamento approvava un progetto di legge, presentato dai partiti socialista e liberale, che: a. rendeva «lecito» l’aborto volontario praticato da un medico, con il consenso della gestante, entro il termine di dodici settimane dal concepimento; b. accettava l’indicazione «eugenetica» fino alla ventiduesima settimana dal concepimento; c. accettava l’indicazione «medica» per tutto il tempo della gravidanza (19). Ma il tribunale costituzionale federale, il Bundesverfassungsgericht, con sentenza emanata il 25 febbraio 1975, dichiarava l’illegittimità della normativa per contrasto con il secondo paragrafo dell’art. 2 della legge fondamentale, in base al quale «ognuno ha diritto alla vita e all’integrità fisica» (20).
Nello spiegare le ragioni del contrasto della normativa con il citato asserto costituzionale, il tribunale federale osservava che la vita fetale è protetta come bene giuridico dalla Costituzione. Se quest’ultima statuisce che ogni persona ha diritto alla vita e che la dignità dell’uomo è inviolabile, ciò deve riguardare anche la vita umana ancora non nata, ma esistente nel grembo materno, sì che la vita del feto, lungo tutto il periodo della gravidanza, costituisce un bene prioritario rispetto alla facoltà di autodeterminazione della gestante e non può essere posta in discussione entro alcun termine (21). La protezione della vita del nascituro, che non può essere ritenuta un bene giuridico inferiore rispetto alla salute della madre, esige anche la previsione della sanzione penale nei confronti degli autori dell’illecito (22).
Il giudice costituzionale ammetteva infine che l’interruzione della gravidanza non fosse punita soltanto nel caso in cui ricorressero le cosiddette «indicazioni», da determinarsi con caratteristiche di precisione e di tassatività da parte del legislatore, onde non si aprisse attraverso esse la possibilità indiscriminata di compiere impunemente l’intervento abortivo (23).
La legge di riforma del 1974 veniva pertanto dichiarata nulla e priva di validità giuridica in quanto, escludendo la punibilità dell’aborto in modo generalizzato all’interno di determinati termini temporali, non garantiva una sufficiente tutela giuridica della vita del nascituro (24). Il potere legislativo è così messo nella condizione di dover approvare una nuova normativa, che viene varata con la legge del 18 maggio 1976, entrata in vigore dal 21 giugno dello stesso 1976.
La maggioranza parlamentare, costretta dalla pronuncia del tribunale costituzionale, riconosceva nel paragrafo 218 che l’aborto volontario è un delitto e lo puniva con pena alternativamente detentiva o pecuniaria. Tuttavia, con una interpretazione estensiva delle condizioni di ammissibilità dell’aborto enunciate dal giudice di costituzionalità, escludeva la punibilità nel caso ricorressero la indicazione «medica» — per tutto il periodo della gravidanza —, quella «eugenetica» — entro le prime ventidue settimane —, quella «giuridica» e quella «sociale» — entrambe entro le prime dodici settimane.
L’indicazione «sociale», praticamente quella di maggiore importanza, è definita dalla legge come «situazione di necessità», «Notlageindikation», e prevede che l’aborto volontario non sia punibile quando sia indicato per allontanare dalla gestante un pericolo tanto imminente: a. che non si possa esigere la continuazione della gravidanza, e b. che non possa essere evitato con altro mezzo. La nuova legge, per quanto abbia eliminato il principio della indiscriminata libertà di abortire entro un determinato termine temporale, elude tuttavia per molteplici aspetti il dovere costituzionale di proteggere la vita del nascituro. Questo bene è abbandonato in realtà all’arbitrio della madre, che può facilmente giovarsi della genericità e della onnicomprensività delle indicazioni di tipo «medico» e «sociale».
6. La riforma in Italia
Il mutamento legislativo è preceduto in Italia da una pronuncia della Corte costituzionale che, sulla questione fondamentale della tutela giuridica spettante al concepito, perviene quasi alla formulazione di una massima opposta a quella enunciata dal giudice costituzionale tedesco. Con la sentenza del 18 febbraio 1975 n. 27 il giudice italiano delle leggi sembra infatti propendere per la tesi secondo la quale il nascituro non gode di una piena protezione costituzionale, bensì di una tutela attenuata, giacché non esisterebbe «equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (25). L’asserto fonda una protezione del nascituro di secondo rango, sia perché proclama l’esistenza di una differenza qualitativa tra la persona e il nascituro, che dovrebbe diventare persona, ma non lo sarebbe ancora, sia perché dichiara la priorità di un diritto, come quello alla salute, che presuppone la vita, rispetto al diritto alla vita, che è invece prioritario e fondante ogni altro diritto. Con una simile premessa, sostenuta da una propaganda abortistica di una insistenza e di una capillarità che forse non hanno avuto l’uguale in altra parte del mondo, il parlamento approvava il 22 maggio 1978 la legge n. 194, con la previsione di due fattispecie fondamentali di aborto «legale». La normativa vigente statuisce: a. l’assoluta prevalenza della facoltà di autodeterminazione della donna sul bene della vita e la piena libertà di abortire entro i primi novanta giorni dall’inizio della gravidanza (artt. 4 e 5); b. la possibilità di abortire in ogni caso, anche dopo lo spirare del novantesimo giorno, qualora ricorra una indicazione «medica», individuata con estrema larghezza, avente cioè riferimento tanto alla salute fisica che alla salute psichica della donna ed espressamente ricomprensiva della cosiddetta indicazione «eugenetica» (26).
La normativa italiana, che accoglie espressamente il sistema ritenuto invalido dal tribunale costituzionale della Repubblica Federale di Germania per contrasto con il principio fondamentale che impone allo Stato la tutela della vita del nascituro, è ancora più permissiva della legislazione francese, per la durata maggiore del termine entro il quale l’aborto è senza condizioni e indiscriminatamente permesso, e si caratterizza per una scelta esplicita a favore dell’interruzione volontaria della gravidanza.
II. Cause della diffusione dell’aborto
1. Il sistema dei termini temporali e il sistema delle indicazioni
Come si ricava dalla breve delineazione del quadro di diritto comparato, i vari sistemi giuridici che hanno preteso di rendere «legale» l’aborto volontario sono riconducibili o al criterio ispiratore di consentirlo indiscriminatamente entro determinati termini temporali, ovvero soltanto in presenza di una serie di situazioni individuate come indicazioni.
Nel primo sistema l’aborto volontario non è più un delitto, ma anzi costituisce una sorta di «diritto» soggettivo: la gestante può esigere infatti che, entro un determinato termine dall’inizio della gravidanza, esso venga praticato dalla struttura sanitaria pubblica.
Sono schierate su questa posizione estrema, nell’Europa Occidentale, la legislazione francese e quella italiana: la prima riconoscendo la piena ammissibilità dell’aborto entro il termine di dieci settimane: la seconda, ancora più estensivamente, entro il termine di novanta giorni dall’inizio della gravidanza.
Nel secondo sistema l’aborto costituisce ancora un delitto: tuttavia la punibilità è esclusa quando ricorrano le cosiddette indicazioni, che la legge dei singoli Stati individua con criteri di maggiore o di minore tassatività e la cui sussistenza viene controllata, in sede di applicazione, attraverso una verifica medica variamente garantita.
Sono schierate su questa posizione la legislazione inglese e quella della Repubblica Federale di Germania, ma, mentre la prima riconosce soltanto le indicazioni «medica» ed «eugenetica», la seconda si apre alla indicazione cosiddetta «sociale», costituente una specie di porta aperta verso la via della totale liberalizzazione.
Il sistema che «legalizza» indiscriminatamente l’aborto entro determinati termini temporali si oppone diametralmente all’ordine del diritto divino-naturale, per il quale la vita umana nel grembo materno deve essere integralmente rispettata e la sua violazione costituisce un delitto (27).
Il sistema organizzato sul criterio delle indicazioni esprime un tentativo di compromesso tra il principio dell’integrale tutela della vita umana innocente e il criterio opposto della prevalenza indiscriminata dell’arbitrio della gestante. Tale posizione vorrebbe riaffermare la vigenza del principio, ma nel contempo «scusare» il contegno di chi praticamente opera contro la vita distruggendo il frutto del concepimento. Essa è intrinsecamente contraddittoria e, in quanto tale, inidonea a resistere alle pressioni della mentalità abortistica: nella pratica si rivela, così, un semplice punto di passaggio verso la soluzione radicale della totale liberalizzazione dell’interruzione procurata della gravidanza. Che, sul piano pratico, ogni tipo di legislazione basata sul criterio delle indicazioni sia destinato a essere costantemente violato, è stato riconosciuto ufficialmente dalla Camera dei Länder della Repubblica Federale di Germania, il Bundesrat, che di recente ha denunciato, per la prima volta dopo l’approvazione della normativa di riforma nel 1976, la disapplicazione della legge, richiamando tutte le pubbliche autorità al dovere di rispettarla (28).
2. Il sistema italiano e le sue conseguenze sulla vita politica e sociale
La legislazione italiana, tra le quattro considerate, riferentisi alle nazioni più ricche e popolose dell’Europa Occidentale, è quella che si oppone con maggiore drasticità ai principi del diritto divino-naturale, che impongono la tutela della vita nel grembo materno come valore oggettivo, assoluto, indisponibile tanto per i singoli — la madre e, in genere, i genitori —, quanto per lo Stato (29).
L’aborto volontario non costituisce più un delitto per la legge italiana e configura anzi un «diritto» soggettivo della gestante. Ciò significa non soltanto che l’autore del fatto non è soggetto alla pena. bensì pure che la legge apprezza positivamente, come un valore meritevole di tutela, il momento della libera determinazione della donna incinta di sopprimere il frutto del concepimento.
Non è un caso che, in una situazione normativa cosi individuata, il numero degli aborti in Italia si sia progressivamente dilatato e il tasso di abortività sia uno dei più alti nel mondo, di gran lunga superiore al tasso degli altri paesi dell’Europa Occidentale (30). Questi dati confermano, contro le troppo semplicistiche tesi di impronta sociologistica e di ispirazione piattamente sentimentale, che qualsivoglia modello normativo tende a influire sulla mentalità corrente e che, se la legge morale oggettiva non costituisce parametro di validità della legge positiva, allora è la stessa legge positiva dello Stato che viene a costituire il parametro alla cui stregua si forma la moralità del cittadino.
L’attuale situazione normativa italiana non può non sollevare gravi problemi di coscienza a proposito della collaborazione dei cittadini allo svolgimento di quelle funzioni pubbliche che siano ordinate all’attuazione pratica della legislazione abortistica. Se, accanto alla questione della legittimità dell’origine del potere, deve porsi costantemente la questione della legittimità del suo esercizio, come condizione fondamentale perché la prestazione del consenso a favore di coloro che detengono l’autorità sia moralmente ammissibile, occorre dire con fermezza che non è legittimo l’esercizio del potere da parte di coloro che hanno preparato, favorito, introdotto e poi tollerato la vigenza di una normativa che non soltanto toglie ogni tutela giuridica alla vita umana nel grembo materno, ma addirittura eleva a modello positivo il principio perverso dell’autodeterminazione soggettiva come criterio decisivo per dare prevalenza alla morte sulla vita (31).
In siffatto quadro normativo è sintomatico che si sia, negli ultimi anni, scatenato un processo di de-legittimazione dell’esercizio del potere: invero, l’ingiustizia radicale inerente alla promulgazione della normativa sull’aborto si ripercuote via via a tutti i livelli della vita politico-costituzionale dello Stato, generando una situazione di confusione e di sconcerto.
Il conflitto tra i vari poteri dello Stato e, in particolare, la guerra permanente che si muovono tra loro i due poteri destinati a dare attuazione, in guise diverse, alla legge — il potere governativo di indirizzo politico, da un lato, e l’ordine giudiziario, dall’altro — costituiscono il segno esteriore della frantumazione irrimediabile della struttura connettiva dello Stato e della società.
Può dirsi fondatamente, invero, che il bellum omnium contra omnes ravvisato da certi filosofi della politica e del diritto nel Seicento e nel Settecento nello stato di natura antecedente al delinearsi del «contratto sociale», esprima piuttosto la condizione permanente di odio e di guerra caratteristiche di ogni società che rifiuta di riconoscere l’oggettiva validità della legge morale e «legalizza» la prevaricazione del più forte sul grido di giustizia di chi non ha potere.
Operare per la cancellazione della legge 194 del 1978, che «legalizza» l’aborto volontario in misura più ampia di qualsivoglia altra legislazione dell’Europa Occidentale, significa non soltanto concorrere alla salvezza di un numero considerevole di vite umane, ma altresì porre una delle condizioni indispensabili perché il potere politico, almeno in questo ambito, torni finalmente a essere esercitato nell’alveo della giustizia e del bene comune.
3. L’aborto volontario come fatto espressivo di una mentalità materialistica
Se ci si domanda quali siano le ragioni del diffondersi in tutto il mondo, al seguito della legislazione sovietica, e poi nei paesi dell’Europa Occidentale, già cristiana, nello stesso arco di tempo, di legislazioni che rendono «lecito» e favoriscono l’aborto, ci si trova di fronte a vari ordini di risposte, ciascuna delle quali possiede un nucleo di verità, attingendo aspetti diversi del problema in esame.
Sotto un primo profilo, l’aborto procurato possiede tutta la forza di un fatto che si presenta con drammatica frequenza nell’esperienza delle moderne società secolarizzate. La mentalità consumistica e permissivistica, innestandosi sulla situazione obiettiva del lavoro extrafamiliare della donna, va a costituire la base per la rivendicazione di una pretesa di autodeterminazione e di libertà che travalica i diritti degli altri e i valori oggettivi della vita e della dignità inerenti alla persona umana (32).
A chiunque osservi con realistica lucidità la storia delle società e delle istituzioni si offre con evidenza la possibilità di constatare che la prepotenza del fatto compiuto tende sempre a prevaricare sulle esigenze di giustizia proclamate dal diritto.
Quanto maggiore è la ripetizione di episodi in contrasto con gli orientamenti del diritto, tanto più forte si fa la pretesa degli autori di tali fatti di vedere «legittimati» gli stessi e de-legittimare il diritto che si oppone a essi qualificandoli come delitto.
Una nota costante nel processo di riforma delle legislazioni sull’aborto consiste nella ripetizione del concetto secondo cui l’interruzione volontaria della gravidanza è socialmente praticata con notevole frequenza, sì che non devono sottoporsi a sanzione penale le numerose persone che eseguono atti volti a troncare la vita nascente nel grembo materno (33). Una tesi di fondo dell’abortismo normativo è proprio imperniata sulla ineluttabilità dell’accadimento ripetuto: poiché l’aborto viene in concreto effettuato illegittimamente e clandestinamente, occorrerebbe renderlo «legittimo» affinché non sia più praticato in modo clandestino.
Tale tesi è tanto irrazionale quanto falsamente neutrale: mentre, per un verso, non offre argomenti a proprio sostegno, ma si fonda esclusivamente sull’invadenza del fatto compiuto — per altro dilatato in modo artificioso —, per un altro verso trascura che la legge, lo si voglia riconoscere o meno, esercita una influenza orientatrice delle coscienze per la sola ragione di esprimere la riprovazione o l’approvazione sociale di una determinata classe di fatti (34). A questo proposito va detto che, come osserva il criminologo inglese Nigel Walker, «la legislazione di una generazione può divenire la morale della generazione successiva» (35). Se, dunque, la legge è in grado di modificare il contegno pratico dei membri di una determinata società, non tanto e non soltanto per l’effetto di deterrenza inerente alla minaccia della sanzione, quanto soprattutto per l’inibizione morale derivante dalla riprovazione sociale espressa tramite il giudizio legislativo, allora è irragionevole e assurdo che la decisione circa il contenuto della legge sia rimessa al fatto compiuto, come se si dovesse riconoscere nell’accadimento una intrinseca valenza di normatività. L’esperienza di attuazione pratica della legislazione abortista ha confermato che la «legalizzazione» dell’interruzione volontaria della gravidanza moltiplica il numero degli aborti, ottundendo il senso morale dei cittadini e procurando alla società nel suo insieme danni incalcolabili (36). Non bisogna, quindi, piegarsi alla prepotenza del fatto, bensì operare per il suo contenimento, con serie misure di carattere preventivo, tanto a livello dell’introduzione di previdenze amministrative e sanitarie a favore della maternità e della famiglia, quanto sul piano culturale, cioè della formazione di una mentalità di accoglienza della vita. Né deve essere trascurato il profilo repressivo nel dispiegamento della tutela giuridica del concepito. Per far riemergere in molti contemporanei, contro la pseudo-cultura della superficialità e della disattenzione, la sensibilità per i valori essenziali che esprimono la dignità della persona umana, occorre munire l’affermazione del bene della giustizia con il presidio della sanzione punitiva: extrema ratio indispensabile per attuare seriamente la protezione della vita nascente.
4. L’aborto volontario come fatto riconosciuto dal diritto
La insistente ripetizione del fatto compiuto non è tuttavia la sola ragione che sta all’origine dell’introdursi e del diffondersi di legislazioni di tipo abortista.
In un saggio pubblicato nel 1981, Wolfgang Naucke, percorrendo il processo di fondazione del diritto penale nel pensiero di Martin Lutero, di Cesare Beccaria e di Immanuel Kant, osservava che nessuno dei tre autori citati, per quanto situabili lungo la linea di un processo che si può definire di secolarizzazione, era realmente riuscito a rendere compiuto tale processo, in quanto ciascuno di essi, pur nella varietà delle tesi sostenute, continuava a ritenere che il diritto dovesse comunque avere un fondamento superiore e indipendente rispetto all’accadimento storico (37).
Invero, per tutti gli autori esaminati da Wolfgang Naucke, tanto il delitto quanto la pena rinvierebbero a un significato superiore a quello dei puri fatti empirici e potrebbero essere realmente compresi soltanto entro tale dimensione, non empiricamente verificabile (38).
Un sistema giuridico compiutamente secolarizzato sarebbe soltanto quello che abbandonasse la pretesa di esprimere un ordine superiore a quello dell’incrociarsi cieco dei puri fatti e accettasse di basarsi esclusivamente sui rapporti di forza empiricamente constatabili nell’ambito di una determinata società (39).
Ritenere, infatti, che il diritto debba avere un fondamento significa riconoscere che esso non è completamente disponibile da parte dello Stato o dei cittadini, bensì che il legislatore storico deve svolgere, in ultima analisi, un servizio nei confronti di un ordine superiore allo Stato, nel quale e per il quale viene realizzato e assicurato il bene comune della società (40).
Vero è che un diritto completamente secolarizzato più non sussisterebbe come diritto, giacché lo stesso suo concetto presuppone un momento di valore che esprime la sua trascendenza rispetto al fatto che ne costituisce l’oggetto (41). Questa realtà si percepisce immediatamente nel campo del diritto penale, ove ogni offesa, oltre a ledere direttamente il bene giuridico che l’azione distrugge o mette in pericolo, provoca altresì un danno di tipo non materiale, consistente nella diminuzione di fiducia dei cittadini nel vivere la dimensione, eminentemente personale, della socialità (42).
Tuttavia, se pure la completa secolarizzazione non può essere mai realizzata, un determinato sistema normativo può tendere ad attuarla, cancellando dal suo orizzonte di valore e dal giudizio di disvalore giuridico tutte quelle classi di contegni che offendono, per definizione, realtà che non hanno il potere di fatto di reagire contro l’autore della violazione.
Invero, sostenere la riduzione del diritto a un complesso di regole costruite sulle pieghe del mondo empirico dei fatti significa lavorare per la elaborazione di un sistema normativo che accetta il costo della pena soltanto quando il costo sociale della reazione della vittima potrebbe essere a esso superiore.
Il diritto secolarizzato è un diritto puramente utilitaristico, non nel senso prospettato dall’antico utilitarismo filosofico, che attribuiva una qualche valenza positiva — almeno in termini di ofelimità psicologica — alla utilità, bensì nel senso di un diritto fondato sul calcolo di bilanciamento tra il costo della sofferenza legata alla esecuzione della sanzione e il costo sociale derivante dalla mancata reazione contro la violazione.
In questa dimensione si comprende la ragione per cui la secolarizzazione costituisce la causa profonda del diffondersi di legislazioni di tipo abortistico.
Il costo sociale della mancata reazione contro l’uccisione della vita nel grembo materno appare tendente a zero, in considerazione della condizione di totale indigenza e di mancanza di potere delle vittime della violazione, incapaci, per definizione, di provocare un qualche turbamento nei confronti della società e di opporre una qualsivoglia resistenza nei confronti della condotta offensiva. Riprovare socialmente l’aborto provocato volontariamente e punirlo come delitto significa riconoscere che, a fondamento del diritto, sta un valore superiore a quello della pura convenienza utilitaristica e che tale valore è indisponibile da parte dello Stato e dei cittadini. Significa riconoscere che lo Stato e i cittadini non sono totalmente padroni del reale, ma di fronte a esso hanno dei doveri di giustizia, che travalicano la loro soggettiva facoltà di autodeterminazione. Significa riconoscere, implicitamente, se non l’esistenza di Dio, almeno un dato che, oltre a costituire preambolo indispensabile per credere in Dio, esprime la verità e la dignità del nostro essere uomini: cioè che noi non possediamo l’infinità e la perfezione di Dio e, pertanto, non possiamo arrogarci l’esercizio dei poteri che sono inerenti alla sua divina onnipotenza.
5. L’aborto riconosciuto dalla legge come strumento di attuazione del programma di distruzione della famiglia
Se l’aborto trova il suo retroterra psicologico nella mentalità materialistica, che induce in ultima analisi la donna a rifiutare la maternità e ad assumere la determinazione di distruggere il frutto del concepimento, tuttavia nella decisione abortista vi è qualcosa che non è compiutamente spiegato dalla semplice permissività e immoralità del costume sessuale.
Infatti, l’interruzione della gravidanza praticata volontariamente, con la recisione del legame essenziale esistente tra la madre e il concepito, esprime una infedeltà della donna rispetto alle leggi del suo essere che non può comprendersi, come fatto accettato e praticato normalmente, se non alla luce di una avversione radicale nutrita contro la realtà e verità dell’essere (43).
Un simile atteggiamento non caratterizza affatto la maggior parte di coloro che si sottopongono volontariamente alla pratica abortiva, come mostra l’esperienza di chi assiste e consiglia le donne che si trovano in situazioni di difficoltà a cagione della gravidanza in corso, bensì le leggi permissive dell’aborto: esse, con il rendere «legale» ciò che è intrinsecamente contrastante con lo statuto ontologico dell’essere, esprimono in forma esemplare quella infedeltà verso la vocazione della donna alla maternità, che costituisce il germe della diffusione e della moltiplicazione delle innumerevoli infedeltà concrete che vanno a ripetersi drammaticamente nell’esperienza quotidiana. Le leggi permissive, in altri termini, rappresentano l’elemento indispensabile perché la disponibilità psicologica all’aborto, che sussiste in ogni epoca, in modo maggiore o minore a seconda del livello di moralità vissuta concretamente, si tramuti in atti di distruzione e di morte con caratteristiche di normalità sociale.
Arrestarsi a questo punto dell’indagine, tuttavia, non sarebbe sufficiente. La diffusione delle leggi permissive corrisponde altresì alla realizzazione di un progetto di trasformazione sociale, volto a distruggere la famiglia come cellula fondamentale della società e a rendere l’individuo sempre più isolato e impotente di fronte all’onnipervadenza dello Stato.
Invero, l’esame dei tempi e dei modi con cui sono state introdotte le riforme nei vari paesi mostra chiaramente che non il diffondersi della mentalità edonistica e materialistica, bensì la decisione politicamente calcolata di attribuire alla donna il «diritto» di determinare autonomamente la prosecuzione, o meno, della gravidanza iniziata, è stata la causa determinante e prioritaria del processo di riforma legislativa (44).
All’origine dell’attribuzione di un tale «diritto» sta, come suo criterio fondante, l’ideologia ugualitarista, che non tollera la disuguaglianza di condizioni di vita e di compiti nonché di responsabilità sociali tra l’uomo e la donna, provocata inevitabilmente dall’accoglimento incondizionato della gravidanza iniziata. Come viene esplicitamente enunciato nei programmi del socialismo reale e indotto sottilmente nella pratica sociale delle democrazie occidentali, il problema che si vuole risolvere con la liberalizzazione dell’aborto è quello della «liberazione» della donna dal vincolo della maternità e dell’educazione dei figli, al fine di garantire alla stessa le condizioni della piena uguaglianza sociale e lavorativa con l’uomo.
In tale prospettiva, l’aborto costituisce il più rilevante mezzo di controllo delle nascite, che viene scientemente propagandato dai governi per frantumare il legame tradizionale della donna con la maternità, attraverso l’enfasi posta sulla libertà e sulla autodeterminazione della donna stessa e la sollecitazione del suo orgoglio e del suo desiderio di indipendenza. Sintomatico è il fatto che alla liberalizzazione dell’aborto siano costantemente accompagnate misure volte a diffondere la contraccezione e a propagandare una mentalità che separi la procreazione dalla sessualità. Il risultato che si ha di mira con questo complesso di misure è, oltre alla drastica riduzione del tasso di crescita della popolazione, soprattutto lo smembramento della famiglia come cellula fondamentale della società, la parificazione della donna all’uomo come merce-lavoro e la sottoposizione dell’intera società a un più rigido controllo da parte dello Stato. Che la diffusione dell’aborto costituisca lo strumento principale per l’attuazione di un siffatto progetto è particolarmente evidente nei paesi a dominio socialista, ove l’intento è chiaramente enunciato nei programmi del partito comunista volti a «legittimare» l’aborto volontario. Ma lo stesso effetto strutturale è prodotto in Occidente dalle leggi permissive che, riconoscendo un «diritto» soggettivo laddove vi è piuttosto un delitto, tolgono in realtà alla donna i diritti e i doveri che fanno della stessa il pilastro decisivo per la perpetuazione della famiglia come cellula fondamentale della vita associata.
Se si esaminano sino in fondo, oltre alle cause psicologiche, anche le cause sociali dell’aborto, si comprende immediatamente che le difficoltà reali caratterizzanti, nel nostro tempo, la condizione femminile sono costituite dalla dislocazione delle donne nell’attività lavorativa esterna alla famiglia, e dalla contemporanea svalutazione dell’impegno educativo e lavorativo all’interno della stessa. L’ideologia ugualitarista e le necessità economiche indotte dall’incessante dilatarsi dei consumi materiali allontanano sempre più la donna dalla vita familiare e tendono a separarla psicologicamente dalla maternità e dalle sue esigenze. Ma, occupate come merce-lavoro nel ciclo produttivo, le donne vivono la gravidanza come un evento che mette in discussione la loro situazione lavorativa e come un rischio per il loro avvenire sociale.
In condizioni di tale genere la contraccezione e, più ancora, l’aborto costituiscono la «garanzia» dell’uguaglianza sociale raggiunta. Le leggi permissive, assumendo positivamente una siffatta situazione, ne esaltano e ne moltiplicano gli effetti, che sono il progressivo abbandono della famiglia da parte della donna e l’affidamento improprio di compiti educativi allo Stato. Il risultato finale non può che essere l’ulteriore compressione della libertà individuale a beneficio del potere dello Stato, che tanto più si estende, quanto più le persone abbandonano i loro compiti, i loro doveri e le loro responsabilità.
Per combattere realmente contro l’aborto, dunque, occorre positivamente svolgere un’opera di tutela culturale, normativa ed economica della famiglia, nei suoi valori essenziali e permanenti, contro il relativismo morale che la vorrebbe ormai inutile e inefficace, e contro le leggi che ne diminuiscono la rilevanza e l’influenza sociale.
Mauro Ronco
Note:
(1) Il regnante Pontefice addita espressamente nella «piaga dell’aborto» uno dei segni di preoccupante disgregazione dei valori fondamentali che debbono circondare la vita della famiglia e la dignità della persona umana. Alla radice di tale processo di disgregazione «sta spesso una corruzione dell’idea e dell’esperienza della libertà, concepita non come la capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico benessere» (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, del 22-11-1981, n. 6).
(2) Cit. in Lawrence Lader, Abortion, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1966, p. 121.
(3) Cfr. Rudolf Schlesinger, The Family in the USSR, Routledge and Kegan Paul. Londra 1949, passim.
(4) Per queste informazioni, cfr. H. Kent Geiger, The Family in Soviet Russia, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets) 1968, p. 73.
(5) Cfr. Carl Müller, The Dangers of Abortion, in WorldMedical Journal, n. 13, maggio-giugno 1966, p. 79.
(6) Cfr. H. K. Geiger, op. cit., p. 73, il quale descrive altresì i tragici effetti della distruzione della famiglia a seguito delle leggi permissive approvate subito dopo la Rivoluzione comunista In particolare, l’incoraggiamento alla libertà individuale nel campo sessuale e le facili leggi di divorzio portarono alla distruzione delle famiglie e al disordine sociale, di cui furono principali vittime le donne e i bambini. Una certa parte degli stessi membri del partito rifiutava di mantenere i propri figli dopo il divorzio. Vladimir Ilyich Lenin, prima della sua morte, richiedeva maggiore disciplina e minore libertà individuale come indice di un corretto atteggiamento rioluzionario: «La rivoluzione — egli diceva — non può tollerare condizioni orgiastiche» (cit. ibid. p. 84).
(7) Cfr. András Klinger, Demographic Effects of Abortion Legislation in Some European Socialist Countries, in AA. VV., Proceedings of the World Population Conference. Belgrade 1965, vol. II, United Nations, New York 1967, p. 89.
(8) Per informazioni particolareggiate sulla legislazione sovietica, cfr. Daniel Callahan, Abortion: law, choice and morality, Collier-Macmillan, Londra 1970, pp. 221 ss.: e L. Lader, op. cit., pp. 120 ss.
(9) K. H. Mehlan, Changing Patterns of Abortion in the Socialist Countries of Europe, relazione alla International Conference on Abortion (Hot Springs, Virginia, 17/20-11-1968), p. 5, cit. in D. Callahan, op. cit., p. 224.
(10) La Repubblica Democratica di Germania approva una regolamentazione spiccatamente abortista soltanto nel 1965. Il ritardo si spiega con il basso tasso di crescita della popolazione, stremata dalla guerra, dall’emigrazione di massa e dall’oppressione politica. Per ampie informazioni sulle legislazioni abortiste nei paesi dell’Est. Cfr. D. Callahan, op. cit., pp. 226-239.
(11) In Ungheria per mille nati vivi si hanno: nel 1960, 1110 aborti; nel 1961, 1210; nel 1962, 1260; nel 1963, 1310; nel 1964, 1400; nel 1965, 1360; nel 1966, 1350; nel 1967, 1260: nel 1968, 1300. In Romania, dove l’aborto è espressamente adottato dal governo come mezzo per la limitazione delle nascite, gli aborti legali passano da 112 mila nel 1958 — due anni dopo l’introduzione della legge abortista — a più di un milione nel 1965. Su mille nati vivi vi sono 510 aborti nel 1959 — tre anni dopo l’introduzione delle legge — e 4 mila aborti nel 1965, sì che lo stesso governo, preoccupato del rapido declino della popolazione, è indotto a modificare in senso più restrittivo la legge nel 1966 (cfr. ibid. p. 243).
(12) Per il caso sintomatico della Romania, cfr. ibid. pp. 236-237.
(13) La legge di riforma è approvata il 27 ottobre 1967 con il voto favorevole di 167 deputati contro 83 ed entra in vigore nell’aprile del 1968.
(14) Per più ampie informazioni sulla legislazione britannica, cfr. D. Callahan, op. cit., pp. 142 ss.
(15) Cfr. Gabriel Roujou de Boubée, L’interruption volontaire de la grossesse. Commentaire de la loi n°. 75-17 du 17 janvier 1975, Boisseau, Tolosa 1976, p. 13, secondo il quale «l’aborto è un male che bisogna combattere. Purtroppo è un male ampiamente diffuso e la repressione praticata fino a oggi ha avuto l’effetto di provocare una espansione allarmante negli aborti clandestini. Si deve dunque tentare un’altra tattica, più liberale, consistente nel tollerare e nell’organizzare una categoria di aborti ormai leciti».
(16) Secondo G. Roujou de Boubée, op. cit., p. 14, il legislatore avrebbe con ciò «dato prova di umiltà: non pretende di avere trovato la soluzione definitiva».
(17) Per un commento della legge francese, cfr. per tutti Robert Vouin, L’avortement voulu, Dalloz, Parigi 1976.
(18) Per una visione sintetica dei problemi dibattuti nella letteratura giuridica di lingua tedesca, cfr. Günter Arzt, Strafrecht, Besonderer Teil. Delikte gegen die Person, Gieseking Verlag, Bielefeld 1977, pp. 107 ss.
(19) La legge tedesca del 1974 è conosciuta sotto la denominazione di Quinta legge della riforma del diritto penale, Fünfte Gesetz zur Reform des Strafrechts, e venne approvata il 18 giugno 1974.
(20) L’importantissima sentenza del 25 febbraio 1975 del tribunale costituzionale, che riafferma con grande energia che il nascituro è persona e che lo Stato ha il dovere giuridico di proteggerlo, può essere letta nella rivista che raccoglie le decisioni, appunto, del tribunale costituzionale: Entscheidungen des Bundesverfassungsgericht, vol. 39, 1975, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tubinga, pp. 1 ss.
(21) «Questa precedenza [della vita del nascituro] vale fondamentalmente per l’intera durata della gravidanza e non può essere posta in discussione entro alcun termine» (sentenza del 25 febbraio 1975, ibid., p. 43).
(22) Cfr. ibid., pp. 45 ss., in particolare p. 47: «Al valore del bene giuridico minacciato dalla negazione corrisponde la serietà della sanzione minacciata per la negazione, al valore elementare della vita dell’uomo la punizione penale della sua negazione».
(23) Cfr. ibid., pp. 49 ss.
(24) Cfr. ibid., p. 68.
(25) Cfr. Corte costituzionale, sentenza 18 febbraio 1975, n. 27, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1975, p. 572, su cui vedi il commento durissimo di Alberto Crespi, L’aborto vivo e vitale negli auspici della Corte costituzionale, ibid., pp. 566 ss.: e critico di Marco Boscarelli, Corte costituzionale e liberalizzazione dell’aborto, ibid., pp. 569 ss. L’orientamento che nega una piena tutela giuridica al concepito è stato in seguito confermato dalla Corte costituzionale, soprattutto con la sentenza 4 febbraio 1981, che escludeva l’ammissibilità costituzionale del referendum volto a chiedere l’abrogazione delle norme permissive dell’aborto volontario della legge n. 194/1978. Su tale sentenza rinvio al mio Solo l’aborto è «costituzionale», in Cristianità, anno IX, n. 70, febbraio 1981.
(26) Per la delineazione degli aspetti salienti della legislazione italiana mi permetto di rinviare al mio Le ragioni del «referendum» richiesto da Alleanza per la Vita, in Cristianità, anno VIII, n. 58, febbraio 1980.
(27) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 51; e Conferenza Episcopale Italiana, Istruzione pastorale La comunità cristiana e l’accoglienza della vita umana nascente, dell’8-12-1978.
(28) Cfr. Günter Bading, Abtreibung: Bundesrat rügt die «Missachtung des Rechts», in Die Welt, 21/22-12-1985, in cui dà conto dell’importante decisione del Bundesrat di dicembre del 1985, ove, tra l’altro, si delibera la sospensione dei finanziamenti pubblici per i consultori che non favoriscono la protezione della vita.
(29) Sulla vita del nascituro come valore oggettivo, assoluto e indisponibile da parte di chiunque, cfr. Dario Composta S. D. B., Aborto e diritto naturale, in Cristianità, anno III, n. 13, settembre 1975.
(30) Per un commento ai dati relativi al 1984 forniti dal ministro della Sanità, da cui si ricava che il tasso di abortività ha superato i 400 aborti «legali» per ogni 1000 nati vivi, cfr. Pier Giorgio Liverani, 1984: un aborto ogni due nascite, in Avvenire, 7-3-1985. Dalla riflessione su questi dati è scaturito il Messaggio dei Vescovi italiani al Paese per la VII Giornata «per la vita» 1985 Far pace con la vita.
(31) Sul tema dei rapporti tra legge ingiusta — con particolare riferimento alla legge autorizzativa dell’aborto volontario approvata nel 1985 nel Regno di Spagna — e legittimità dell’esercizio del potere, cfr. i precisi interventi di mons. José Guerra Campos, Aborto praticamente libero, legittimazione di un delitto, in Cristianità, anno XIII, n. 124-125, agosto-settembre 1985; e Idem, Morale cattolica e monarchia costituzionale. La responsabilità morale del re nella ratifica delle leggi, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 3, inverno 1985.
(32) Ha sottolineato questa situazione di crisi il documento conclusivo della seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi: cfr Relatio finalis, II, A, I.
(33) Ha chiaramente messo in luce questo aspetto un cattedratico di diritto penale nell’Università di Colonia, recatosi nel 1982 a un seminario di studi a Madrid per sostenere i progetti di riforma più radicali in senso abortistico dibattuti all’epoca in Spagna: cfr. Hans Joachim Hirsch, La reforma de los preceptos sobre la interrupción del embarazo en la República Federal Alemana, in AA. VV., La Reforma penal, Primera Cátedra de Derecho Penal Universidad de Madrid, Madrid 1982, pp. 50 ss.
(34) La più moderna dottrina penalistica ha espressamente e tematicamente riconosciuto il valore della legge come modello per la formazione degli orientamenti morali nella vita dei cittadini: cfr. Johannes Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in AA.VV., Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di Mario Romano e Federico Stella, Il Mulino, Bologna 1980, p. 33 ss.
(35) Cit. in J. Andenaes, op. cit., p. 34.
(36) Attraverso la piaga dell’aborto e la contraccezione viene messa in discussione la stessa continuità dell’esistenza delle nazioni. Fondate preoccupazioni in questo senso sono state di recente sollevate nella Germania Occidentale: cfr. Horst Stein, Unsere soziale Rentenversicherung ist eine Prämierung der Kinderlosigkeit, in Die Welt, 7-121985.
(37) Cfr. Wolfgang Naucke, Christliche, aufklärerische und wissenschaftstheoretische Begründung des Strafrechts (Luther – Beccaria – Kant), in AA. VV., Cristianesimo secolarizzazione e diritto moderno, Giuffré, Milano 1981, pp. 1201 ss.
(38) Cfr. ibid., p. 1207.
(39) Cfr. ibid., p. 1208.
(40) È questa la tesi della dottrina giuridica della Chiesa: cfr. Pio XII, Discorso ai partecipanti al VI Congresso Internazionale di Diritto Penale, del 3-10-1953, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XV, pp. 335-353.
(41) Lo stesso immanentismo giuridico più radicale riconosce nel diritto questo aspetto «trascendentale», cfr. Angelo Ermanno Cammarata, Contributi ad una critica gnoseologica della giurisprudenza, in Idem, Formalismo e sapere giuridico. Studi, Giuffré, Milano 1963, pp. 97 ss.
(42) Cfr. il mio L’azione «personale». Contributo all’interpretazione dell’art. 27 comma 1° Costituzione, Bessone, Torino 1985, pp. 94 ss.
(43) Il regnante Pontefice ha di recente sottolineato che l’aborto costituisce «una grave sconfitta dell’uomo e della società civile». Lamentando, poi, che «lo Stato, anziché intervenire — com’è sua missione — a difendere l’innocente in pericolo, prevedendone la soppressione e assicurandone, con mezzi adeguati, l’esistenza e la crescita, autorizza ed anzi concorre all’esecuzione di una sentenza di morte», ha rilevato: «È questa una delle conseguenze più preoccupanti del materialismo teorico e pratico, che, negando Dio, finisce per negare anche l’uomo nella sua essenziale dimensione trascendente, ed è frutto dell’edonismo consumistico, che pone nell’interesse immediato il fine dell’attività umana» (Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del Movimento italiano per la Vita, in L’Osservatore Romano, 26-1-1986).
(44) Soltanto nel decennio 1970-1980 non meno di quaranta paesi hanno approvato leggi per realizzare riforme di tipo abortistico. Si vedano i dati in Bericht der Kommission zur Auswertung der Erfahrungen mit der reformierten 218 StGb [Informazione della Commissione per la valutazione delle esperienze realizzate sotto la disciplina del riformato articolo 210 del Codice Penale], in Bundestag-Drucksache 8/3680, del 31-1-1980, pp. 197 ss.