Da Asianews del 24/09/2018. Foto da articolo
A due giorni da quello che con tanta enfasi molti hanno definito uno “storico accordo”, quello fra Cina e Santa Sede sulle nomine dei vescovi, cerchiamo di comprendere e valutare la sua portata. Il sobrio annuncio della Sala stampa vaticana – mentre tutti i giornalisti erano impegnati altrove, nel viaggio in Lituania di papa Francesco – è stato accolto con acceso ottimismo e buio pessimismo.
Fra gli ottimisti, l’aggettivo “storico” è stato usato fino allo spreco, dimenticando che l’accordo è definito “provvisorio”, soggetto a “valutazioni periodiche”, e che lo stesso direttore della Sala stampa ha parlato di “inizio” di “un processo” e non della sua “fine”.
Per i pessimisti, esso è “l’inizio” di una consegna totale della Chiesa cinese nelle mani dello Stato che, come già avviene, ne farà ciò che vuole, ossia uno strumento del Partito, e puntano il dito al silenzio sulle sofferenze che cattolici ufficiali e non ufficiali subiscono da 70 anni.
Già altre volte abbiamo detto che noi di AsiaNews non siamo né ottimisti, né pessimisti, ma realisti. E tale realismo ci permette di vedere il positivo e il negativo presente in questo fragile e “provvisorio” accordo.
Il papa nelle nomine dei vescovi
In esso c’è in effetti una novità: in qualche modo – che non sappiamo, perché il testo dell’accordo non è stato reso pubblico, e non lo sarà – la Santa Sede sarà implicata nelle nomine dei vescovi. Questo, almeno sulla carta, significa la fine della Chiesa “indipendente” tanto sbandierata in tutti questi anni, e il riconoscimento che il legame col papa è necessario anche a un vescovo cinese per esercitare il suo ministero. Secondo l’accordo non sarà più possibile nominare e ordinare un vescovo senza il mandato papale, anche se il governo, o l’associazione patriottica, o il consiglio dei vescovi potranno proporre il loro candidato. E questa è la parte ottimista.
Ma vi è anche un lato pessimista: cosa succederà se il candidato proposto dalla Cina viene rifiutato dal papa? Fino ad ora si era parlato di un potere di veto temporaneo del pontefice: il papa, cioè doveva dare le motivazioni del suo rifiuto entro tre mesi, ma se il governo valutava inconsistenti le motivazioni papali, avrebbe continuato con la nomina e l’ordinazione del suo candidato. Non avendo il testo dell’accordo, non sappiamo se questa clausola è stata mantenuta, se davvero il pontefice avrà l’ultima parola sulle nomine e ordinazioni, o se invece si riconosce la sua autorità solo in modo formale.
Un mio amico canonista è “sicuro” che il papa avrà un potere permanente sulla scelta ultima dei candidati “perché la Chiesa non può fare altrimenti”. In ogni caso, questo è uno dei punti che – in mancanza del testo sull’accordo – bisognerà verificare nei prossimi mesi, con le possibili nomine e ordinazioni che attendono da anni.
La cancellazione delle scomuniche
Un altro elemento positivo è la cancellazione della scomunica a sette vescovi, ordinati senza mandato papale dal 2000 fino al 2012. È un fatto positivo perché almeno in via di principio aiuterà i cattolici cinesi a fare più unità. Questi vescovi scomunicati erano usati dall’Associazione patriottica per dividere la Chiesa, facendoli presenziare con la forza della polizia a cerimonie e ordinazioni episcopali. Va pure detto che diversi di loro hanno compiuto un cammino di pentimento e da anni chiedono di essere riconciliati con Roma. L’eliminazione della scomunica non fa parte del “pacchetto” dell’accordo, ma è un gesto interno alla Chiesa, sebbene – forse con furbizia politica un po’ ingenua – sia stato dato l’annuncio della riconciliazione lo stesso giorno della notizia dell’accordo.
Ma fra i fedeli cinesi – parte di quel “santo popolo fedele di Dio” che il papa ci chiede di ascoltare – vi è avvilimento e tristezza perché alcuni di questi vescovi riconciliati sono noti per avere amanti e figli e per essere “collaborazionisti”. Molti altri si domandano se i vescovi riconciliati esprimeranno una domanda pubblica di perdono davanti al popolo che essi hanno scandalizzato con il loro agire “indipendente”. Proprio il card. Pietro Parolin, nel suo commento all’accordo, ha chiesto che si pongano “dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente”.
Accordo “pastorale” e “non politico”
Un altro elemento tutto positivo dell’accordo è il suo carattere “pastorale” e “non politico”. E in effetti l’accordo è stato firmato senza che la Cina esiga come condizione previa la rottura dei rapporti diplomatici con Taiwan. Per decenni e perfino negli ultimi anni di dialogo ai tempi di papa Francesco, il ritornello della Cina era che se il Vaticano voleva migliorare i rapporti con Pechino, doveva anzitutto interrompere le relazioni con Taiwan e non intromettersi negli affari interni della Cina. Con l’accordo “pastorale” queste due condizioni sono saltate: il Vaticano viene introdotto nelle nomine dei vescovi e non c’è alcuna rottura con Taiwan, con tanto di apprezzamento del ministero degli esteri dell’isola e dell’ambasciatore presso la Santa Sede.
La persecuzione non detta
Ma un altro elemento è tutto negativo: né nella notizia dell’accordo, né nelle sue spiegazioni vi è un minimo accenno alla persecuzione che i cattolici e tutti i cristiani stanno sostenendo in questi tempi. Come testimoniato tante volte sull’agenzia, in nome della “sinicizzazione”, in Cina vengono bruciate e distrutte croci, demolite chiese, arrestati fedeli e ai giovani sotto i 18 anni è vietata la partecipazione alle funzioni e l’educazione religiosa. In più ci sono vescovi e sacerdoti scomparsi nelle mani della polizia; vescovi agli arresti domiciliari; vescovi non ufficiali considerati come criminali; controlli d’ogni tipo nella vita delle comunità. A tutto ciò si aggiungono le persecuzioni a cui sono sottoposte le altre comunità religiose (buddiste, taoiste, musulmane, …), che manifestano la visione negativa che la Cina ha delle religioni, e il suo progetto di assimilarle o distruggerle.
Questo fa guardare all’accordo provvisorio come a un risultato strano, un po’ insperato, provvisorio, ma senza futuro, perché getta un’ombra di sospetto sull’interlocutore con cui la Santa Sede ha deciso di dialogare. Dalla Cina ci giungono appunto commenti che esprimono contentezza per l’accordo, ma anche tristezza perché i cinesi non si fidano delle loro autorità politiche.
A questo proposito, mesi fa in un’intervista papa Francesco ha detto che “il dialogo è un rischio, ma preferisco il rischio che non la sconfitta sicura di non dialogare”. È quindi meglio iniziare un dialogo anche con un interlocutore non fidato, che rimanere fermi. Da questo punto di vista, l’accordo, anche se provvisorio, rappresenta senz’altro una pagina nuova.
I martiri lituani e cinesi
Rimane il fatto del silenzio sulle persecuzioni. In tutti questi anni la Santa Sede ha taciuto su qualunque fatto di persecuzione: l’uccisione di sacerdoti; le chiese distrutte; i vescovi arrestati… Questo ha dato a molti l’impressione che il dialogo fosse più “politico” che “pastorale”. Proprio ieri papa Francesco, a Vilnius, ricordando le vittime del genocidio nazista e comunista, ha espresso una preghiera in cui egli chiede al Signore che non diventiamo “sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al cielo”. Ed è proprio quanto i cattolici cinesi domandano.
Mi sono chiesto come mai la Santa Sede abbia voluto comunicare la firma dell’accordo proprio mentre papa Francesco a Vilnius ricordava la grande testimonianza dei cattolici lituani sotto il comunismo, la loro resistenza e fede sotto le torture, il loro essere stati seme di una società più libera e più accogliente. Anche allora i cattolici discutevano e si dividevano fra la denuncia e la resistenza e l’Ostpolitik vaticana. Se si guarda l’accordo solo come una cosa negativa, allora la memoria dei martiri lituani potrebbe dare adito a un’interpretazione dei “due pesi e due misure” che la diplomazia spesso attua e le celebrazioni dei martiri a Vilnius sarebbero una presa in giro delle sofferenze dei cristiani cinesi.
Ma se nell’accordo, pur provvisorio, si vede un briciolo di positività, allora le celebrazioni lituane sono un segno di speranza: il comunismo, “il delirio di onnipotenza di quelli che pretendevano di controllare tutto”, non ha vinto. E questo fa sperare anche per la Cina.
Bernardo Cervellera