Tra i più originali temi iconografici, l’albero di Iesse raffigura la genealogia di Cristo estendendo i suoi rami fino al nostro tempo che soffre per mancanza di radici.
Essendo «omo sanza lettere»1 – come si definiva il poliedrico Leonardo di ser Piero da Vinci (1452-1519) – sono costretto a ricorrere ad aneddoti banali per comprendere concetti più profondi. In quell’ultimo scorcio del “mondo piccolo” sopravvissuto fino alla fine del secolo scorso, ho fatto in tempo a sentirmi rivolgere domande il cui senso si va affievolendo nella società centrifuga dei nostri giorni, a cominciare dalla più classica: «A chi sei figlio?», che poteva assumere varie sfumature. La si poteva formulare in tono innocuo e affettuoso, magari accompagnata da un complimento che sarebbe stato poi attribuito ai meriti del genitore (e del nonno, e del bisnonno…). Oppure, detta in tono minaccioso, apostrofando il pargolo reo di qualche bravata, questa domanda includeva già in sé la minaccia neanche troppo nascosta: «Lo dirò a tuo padre (una volta saputo chi è)». L’altra domanda, reliquia di società tradizionali, era: «A chi appartiene?», informandosi sul conto di una persona, per sapere quale fosse il suo “casato”, la sua “stirpe”, ricevendone in risposta un cognome, ma più spesso un soprannome o persino un toponimo. Domande impensabili in un contesto apolide, dove sempre più spesso una generazione si trasferisce a tale distanza dalla precedente che nessuno è più identificabile come «figlio di» e ciascuna genealogia riparte da zero.
Sono queste le riflessioni che affiorano di fronte alle – apparentemente incomprensibili – pagine evangeliche degli antenati di Cristo e all’iconografia, diffusa specialmente nel Medioevo, che ne raffigura l’albero genealogico. Ne è scaturito un originalissimo tema iconografico fiorito – è il caso di dirlo – fino al secolo XV e ormai pressoché dimenticato nel nostro “eterno presente” dai rami atrofizzati.
Quell’epoca tutt’altro che oscura, anzi fervida di inventiva, che fu appunto il Medioevo, brulicava di immagini che – a dispetto della presunta ignoranza biblica dei secoli passati, periodicamente rivangata da chi confonde il Verbo con la verbosità di qualche esegeta – erano capaci di far “esplodere” di luce e colori persino le pagine bibliche più oscure per noi, moderni e istruiti, che sbadigliamo quelle rare volte in cui sentiamo declamare: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar… eccetera» (Mt 1,2-3), oppure: «Giuseppe, figlio di Eli, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài, figlio di Giuseppe… eccetera» (Lc 3,23-24). Sono le genealogie di Cristo secondo Matteo (1,1-16) e secondo Luca (3,23-38). La prima risale da Cristo ad Abramo, la seconda ad Adamo e in entrambe spicca il nome di Iesse, padre del re Davide. Gli artisti combinarono il divino “elenco telefonico” con la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1) ed ecco l’albero genealogico ramificarsi vivido e luminoso nelle vetrate per poi riflettersi all’infinito in mille riverberi, sulle alte pareti di una cattedrale o sulle minuscole pagine di un libro d’ore.
Nella versione più ricorrente esso presenta la figura di Iesse, il capostipite della stirpe regale davidica, addormentato, e nel suo fianco si innesta un albero, i cui rami corrispondono ad altrettanti antenati di Cristo, culminando poi nella Vergine con il Bambino. Così l’albero di Iesse appare dipinto sulle pagine del Salterio di Scherenberg (XIII sec.) e su quelle del Maestro Jacques de Besançon (XV sec.) oppure scolpito nella cappella di Sant’Anna (sec. XVI) della cattedrale di Burgos, in Spagna, o sull’altar maggiore della chiesa ungherese di Gyöngyöspata (sec. XVII), uno degli esempi più tardi e suggestivi. Più libera rispetto alle genealogie classiche, e più spiccatamente mariana, è invece l’opera di Matteo da Gualdo (1435-1507): l’Albero della Vita affonda le radici nel costato di Adamo, ramificandosi poi in medaglioni che contengono ciascuno una coppia di antenati e salgono fino a Gioacchino e Anna, i genitori della Vergine, racchiusi singolarmente in un ramo-medaglione più ampio. Al centro è Maria, raffigurata senza il Figlio, rivestita di sole. In un solo dipinto si passa così dalla Genesi all’Apocalisse, non attraverso una successione di eventi, ma di generazioni.
E qualcosa vorrà pur dire se Cristo è nato non da una vergine isolata né da un padre putativo trovato per caso, ma da una dinastia, da una genealogia. Oggi si insiste molto sul superamento dei confini geografici, ben poco invece su quelli cronologici. Non sappiamo più chi siamo anche perché non sappiamo più da dove e da chi veniamo. È paradossale osservare che non ci saremmo senza persone che tuttavia non abbiamo mai visto e mai vedremo, perché vissute e trapassate decenni o secoli prima della nostra esistenza. Eppure, c’è un misterioso legame di sangue e di memoria che unisce vivi e morti in una singolare comunità di destino, in cui i primi ricevono l’esistenza e il testimone dai secondi. Vi è addirittura, secondo sir Roger Scruton (1944-2020), «[…] un patriottismo dell’immaginazione che ti permette di vivere, anche nel mezzo di cambiamenti frenetici, fra i morti che ti hanno affidato la loro memoria» – ed è tanto più confortante nella nostra epoca di “raminghi”, di Natali solitari o trascorsi in treno per ricongiungere temporaneamente le foglie sparse al ceppo natio. L’albero di Iesse estende i suoi rami per farsi albero genealogico di ciascuno, a perenne monito per chi vorrebbe fare tabula rasa del passato e di tutto ciò che era sacro per le generazioni passate, e per offrire riparo a chi soffre di una solitudine che non è dovuta solo a mancanza di relazioni, ma anche a mancanza di radici.
Sabato, 25 dicembre 2021
Note:
1 Codice Atlantico, f. 119 recto.
2 R. Scruton, Sulla caccia. Riflessioni filosofiche per un’apologia dell’Ars venandi, trad. it., Editoriale Olimpia, Sesto Fiorentino (Fi) 2007, p. 35.