I due canti politici dell’ Inferno e del Purgatorio danteschi
di Leonardo Gallotta
Che la Divina Commedia sia ricca di simmetrie è noto ai più e così è per i canti politici, i sesti di ogni cantica che in climax crescente partono da Firenze, si allargano all’Italia e terminano con l’Europa secondo un’ottica provvidenziale e imperiale. Ci occupiamo qui dei canti politici di Inferno e Purgatorio e successivamente, per l’importanza che riveste sotto molteplici aspetti, del solo sesto canto del Paradiso.
VI Inferno. Risvegliatosi dopo lo svenimento causato dalla triste storia di Paolo e Francesca, Dante si trova nel III cerchio, quello dei golosi, caratterizzato da una pioggia “fredda e greve” che fa riversare a terra grandine, acqua sporca e neve in un miscuglio che genera un fetido odore. Guardiano di questo cerchio è Cerbero, mostro canino a tre teste, già presente nell’Eneide virgiliana che assorda le anime con i suoi latrati e graffia, scuoia e squarta le anime dannate. E’ placato da Virgilio che getta la poltiglia raccolta a terra nelle fauci del mostro, così che i due poeti possono proseguire. E’ chiaro che le tre fauci stanno a significare l’ingordigia, mentre il contrappasso è dato dagli assordanti latrati di Cerbero in contrasto con le dolci musiche di sottofondo in occasione dei banchetti e dallo strazio dei corpi che furono così ben nutriti dai dannati, cosa di cui mai si pentirono in vita. Non bisogna poi dimenticare la puzza della poltiglia, in contrasto con i deliziosi profumi dei cibi da degustare.
Tra le anime distese a terra se ne leva una che chiede a Dante di essere riconosciuta, ma Dante non ne è in grado a causa dei lineamenti alterati ed è lui allora che si fa conoscere. Si tratta di Ciacco, noto in Firenze per essere stato un gran goloso. Dante allora, visto che si tratta di un suo concittadino, gli pone tre domande sul futuro della sua città: a che cosa si ridurranno i cittadini di Firenze divisi in fazioni; se vi è qualche giusto e il motivo per cui vi è tanta discordia. Risponde Ciacco che dopo un grave fatto di sangue avranno la meglio i Guelfi Bianchi i quali cacceranno i Neri che tuttavia solo dopo tre anni, col più o meno velato aiuto del Sommo Pontefice (Bonifacio VIII), rientreranno in Firenze, “tenendo l’altra (parte) sotto gravi pesi” per lungo tempo. Qui allude in modo estremamente conciso, anche alla sua dolorosa situazione di esiliato, privo ormai di ogni bene.
Il dolore, in questo canto, è di natura politica: ciò che addolora Dante è la violenta lotta tra le fazioni politiche che porta gli uomini lontano da ogni convivenza civile. I giusti sono due soltanto, cioè un numero esiguo e tre sono stati i vizi che hanno infuocato gli animi: la superbia, l’invidia e l’avarizia (o avidità). Ma Dante è ancora desideroso di sapere che destino hanno avuto nell’aldilà alcuni grandi uomini della generazione precedente che avevano reso grande il Comune di Firenze, tra cui Farinata degli Uberti, Jacopo Rusticucci e altri. Ciacco riponde, stupendo Dante, che sono tra le anime più nere, macchiate da diverse colpe. Si conclude così l’incontro con Ciacco che chiede di essere ricordato tra i vivi e i due poeti, cammin facendo, si trovano al punto in cui si scende al cerchio successivo.
Quaestiones
1) Chi era veramente Ciacco?
La questione rimane a tutt’oggi irrisolta, a partire dal nome. Nome di persona o soprannome che in fiorentino significherebbe ‘porco’? Quel poco che sappiamo deriva da una novella del Boccaccio (Decameron IX, 8) da cui si ricava che era certamente golosissimo, ma anche buon conversatore e intrattenitore e per questo era invitato spesso ( o si autoinvitava) alla tavola di uomini gentili e ricchi.
2) Perché il discorso profetico sulle sorti di Firenze viene messo sulle labbra di un comune cittadino noto solo per essere stato un gran mangione?
Effettivamente la cosa stupisce. Tuttavia se Ciacco, come riferisce il Boccaccio, era un buon parlatore e intrattenitore, si deve pensare che fosse pure conoscitore attento di persone e accadimenti cittadini. D’altra parte, perché Ciacco vorrebbe essere ricordato ai vivi? Solo per essere stato un gran peccatore di gola?
3) Perché i dannati possono predire il futuro degli accadimenti umani?
E’ una trovata di Dante, il quale immagina che le anime, seppur dannate, possano conoscere il futuro. Come sarà spiegato nel canto X, Dio ha loro concesso di conoscerlo, ma, come i presbiti, vedono gli avvenimenti lontani, ma nessuno riesce a vedere e quindi ad aver notizia di quelli vicini.
4) Perché gli uomini degni che operarono per il bene della città sono messi in Inferno? In che cosa sbagliarono?
Certamente si impegnarono per la crescita della vita cittadina, però commisero gravi peccati di ordine morale e per questo si trovano nell’inferno. Insomma Dante vuol farci capire che per la salvezza eterna non sono sufficienti le virtù civili, ma ad esse vanno affiancate e praticate le virtù morali.
VI Purgatorio. Il canto si apre con la ressa attorno a Dante dei tardo-pentiti morti di morte violenta che chiedono insistentemente suffragi per abbreviare la loro dimora nel secondo balzo dell’Antipurgatorio ove si trovano. Riuscito a districarsi da queste anime, assicurando di esaudire le loro richieste, Dante avanza assieme a Virgilio e i due poeti scorgono un’anima che sta a guardarli senza muoversi e senza aprir bocca. Virgilio le si rivolge per chiedere la strada da seguire, ma essa invece di rispondere chiede a sua volta chi siano e da dove vengano. E’ Virgilio che inizia a parlare, rivelando il suo luogo d’origine, detto in latino, Mantüa, e l’anima, prima disdegnosa, si leva presta, dichiarandosi pur essa mantovana e abbracciando Virgilio. Si tratta di Sordello, il più importante trovatore italiano.
Comincia allora la famosa apostrofe all’Italia “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!” (vv.76 – 78). Dante smette qui di essere personaggio e assume le vesti del poeta vivente tra gli uomini. Esalta l’amor di patria di Sordello che subito aveva fatto festa al suo concittadino al solo sentir nominare la propria terra. Poi attacca con la denuncia dei mali di tutta Italia dove non c’è città che non sia funestata dalle lotte intestine delle fazioni e l’unica legge che impera è quella dell’odio tra cittadini che si distruggono reciprocamente. Altro che amor di patria!
I responsabili di tanto male sono gli uomini di Chiesa che dovrebbero pensare alle cose spirituali e non a quelle mondane, contendendo l’autorità all’Impero, i cui rappresentanti avrebbero dovuto garantire unità di intenti e di leggi, ma in realtà hanno sempre pensato solo ai propri vantaggi particolari – come Alberto d’Austria – disinteressandosi del “giardin de lo ‘mperio”, cioè dell’Italia e di Roma che “piagne vedova e sola”, priva del “suo” imperatore, visto che l’Impero è “romano”. La situazione è così grave che gli occhi giusti di Dio sembrano rivolti altrove.
Le città d’Italia sono piene di tiranni e tirannelli e in tono ironico – sarcastico il canto si conclude con l’apostrofe a Firenze, la sua città, retta ormai da cittadini insipienti e incapaci, volubili e incostanti nelle loro decisioni, con la parola “giustizia” sulla bocca, ma in realtà avidi e corrotti. Firenze è come un’inferma che nel letto, col cambiar posizione, cerca sollievo al suo dolore.
Quaestiones
1) Perché Dante sceglie Sordello come protagonista del canto politico del Purgatorio?
Occorre dire che nella prima parte della sua vita Sordello, nato a Goito nel mantovano all’inizio del XIII secolo, fu un buon cantore, un grande amatore, ma anche un avventuriero spregiudicato. Costretto, a causa di alcuni suoi atti privi di scrupoli, a lasciare la Marca Trevigiana dove si trovava, si recò in Provenza presso la corte di Raimondo Beringhieri, dove perfezionò la conoscenza della lingua e della tecnica trobadorica e scrisse la più famosa delle sue composizioni, il Compianto in morte di ser Blacatz (1236), un’ invettiva satirica in cui passava in rassegna i più famosi personaggi politici del tempo, invitati a cibarsi del cuore del nobile ser Blacatz per acquisirne virtù e coraggio. Passato al servizio di Carlo d’Angiò, in età più tarda cambiò vita e divenne un cavaliere nobile e austero così come appare nella figurazione dantesca. Esaltato come poeta da Dante nel De vulgari eloquentia, Sordello si prestava dunque ad essere inserito nella narrazione dantesca in quanto mantovano come Virgilio e in quanto fustigatore dei potenti come Dante nell’apostrofe all’Italia.
2) A quale schiera di anime appartiene Sordello?
Non abbiamo elementi per poter assegnare Sordello ad un preciso gruppo di anime. Molto semplicemente potremmo considerarla un’anima pentitasi tardi – decise infatti di cambiar vita solo in età avanzata – anche se isolata rispetto alle altre, “altera e disdegnosa” e “tutta in sé romita”. L’isolamento potrebbe derivare dalla sua statura di poeta, elogiato da Dante, come già detto, nel De vulgari eloquentia.
3) Perché Virgilio, rispondendo a Sordello dice solo Mantüa e viene subito da lui abbracciato?
A dire il vero le vecchie edizioni riportavano Mantova in italiano, ma fu Giorgio Petrocchi (1921 -1989) che recuperò la lezione Mantüa ormai ripresa in tutte le edizioni moderne coi puntini di sospensione, puntini che stanno ad indicare che Virgilio avrebbe voluto continuare con l’epitaffio che Donato e San Girolamo avevano attribuito a Virgilio stesso: Mantüa me genuit, Calabri rapuēre, tenet nunc Parthenope: cecini pascua, rura, duces. Se così fosse stato Sordello avrebbe subito riconosciuto il grande poeta latino, ma lo svelamento avverrà invece nel canto successivo.
4) Perché Dante se la prende soprattutto con Alberto I d’Austria?
Alberto I d’Asburgo (1248-1308) non discese mai in Italia ed ebbe il grande demerito di essersi del tutto disinteressato della situazione italiana, al pari del padre Rodolfo e di aver permesso, lui imperatore, che Bonifacio VIII si autoproclamasse Vicario imperiale e che i comuni e le signorie operassero in Italia come se non facessero parte dell’Impero.
Sabato, 4 luglio 2020