Nella sua accezione corrente l’ozio gode di cattiva fama, eppure la frenesia dominante non è meno dannosa. Un mondo sempre di corsa è davvero più efficiente? Alla scuola degli antichi riscopriamo il valore dell’otium.
di Stefano Chiappalone
Non me ne vogliano gli animalisti, ma da tempo accarezzo il sogno di far fuori il Bianconiglio – intendo quello interiore, che ci fa saltare da un luogo all’altro o (virtualmente ma non meno faticosamente) da un file all’altro, con la sensazione di aver corso senza poter sfiorare il traguardo. La nostra giornata tipo non è poi tanto differente da quella dell’ansioso animaletto che correva, continuamente minacciato dall’orologio, esclamando: «È tardi! È tardi!». Rinviamo tutto di continuo, senza più avere il tempo per gli altri né per noi stessi. Oggi non si può, è una giornataccia, domani anche peggio, anzi lasciamo passare questa settimana… «e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde», direbbe il Sommo Poeta (Inferno XV, 121-122).
Naturalmente il momento “buono” non arriva mai, perché l’inarrestabile corsa non ci condiziona soltanto oggi o domani o tra una settimana, ma è ormai la cifra dominante del nostro mondo. Se gli antichi Padri del deserto praticavano l’antirretico, da ἀντίρρησις [antírrhēsis], cioè l’arte di contraddire le tentazioni, a noi servirebbe un “antifrenetico”. Non è infatti (in primo luogo) un problema di tempo, ma di «mente»: tale è, infatti, il significato originario del termine greco ϕρήν [phrên], radice di ϕρένησις [phrenesis], cioè… frenesia! In altre parole, siamo sempre impegnati… a essere impegnati.
In maniera ben più profonda e colta del sottoscritto, il filosofo e scrittore britannico Roger Scruton (1944-2020), che a sua volta riprende il filosofo e scienziato greco Aristotele (384/383-322 a.C.), ricorda che per i greci – e per gli antichi in genere – il tempo libero era una cosa talmente seria da essere definita σχολή [scholè], vale a dire «scuola». Il lavoro, di conseguenza, si definiva in rapporto al vero scopo, quello che siamo soliti definire otium: «[…] lavoriamo per essere liberi di avere tempo libero, e solo nel tempo libero siamo liberi davvero; liberi di vivere quella vita contemplativa che per Aristotele è il sommo bene»(1). La dimensione contemplativa, precisa Scruton, non era «mero snobismo intellettuale», ma «un’attività che fosse ricompensa a se stessa»(2).
Di riflesso, si tende peraltro a sovraccaricare anche il tempo libero dal lavoro, che si rivela non meno intasato di cose da fare, da prenotare, da consumare. Ne consegue, non solo il moltiplicarsi su scala industriale di singoli individui stressati, ma una perdita collettiva di lucidità e di arricchimento culturale. Si comunica moltissimo ma si parla sempre meno – tutti connessi e mai disponibili – aumentano le chat a discapito degli sguardi, crolla la capacità di concentrarsi e, neanche a dirlo, quella particolare forma di coltivazione di sé che si esercita mediante la lettura. Chi ha tempo di leggere? Gli stessi libri sono talora ridotti a beni di consumo, passatempi per un viaggio in treno, o esposti in autogrill tra caffè, tramezzini e bibite. Ci sarebbe poi molto da dire sul progressivo venir meno dell’otium collettivo e condiviso della domenica, stante la diffusione generalizzata del lavoro festivo e di turni di riposo non sempre coincidenti tra familiari e amici, ma non è questa la sede, né il momento – non ignoriamo infatti che nelle contingenze attuali, per molti il problema è poter riaprire. Primum vivere…
In quella «sollevazione contro Platone» che in uno dei suoi aforismi(3) l’acuto scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) definisce caratteristica del mondo moderno, emerge una velata ma capillare sollevazione contro l’otium. Che non è il padre dei vizi, come viene inteso nella traditrice accezione italiana, ma quello stato di quiete (contrapposto al negotium, agli affari, alle incombenze, alle mille occupazioni) necessario a curare la propria casa, a partire da se stessi e dalle proprie relazioni, a coltivare e coltivarsi, godendo dell’amicizia, della lettura, della bellezza. Per poi poter tornare al negotium sereni e concentrati, con l’animo e la presenza di spirito di chi ha goduto di una buona dormita e di una buona colazione, non di chi ha messo due dita nella presa della corrente. Altrimenti trasmetteremo la scossa anche a chi finora se ne era salvato, e magari era partito col piede giusto, finché non gli abbiamo rovinato la giornata.
Proviamo a estraniarci un attimo (non troppo breve, però) da questo treno impazzito e chiediamoci se davvero valga la pena lasciarsene travolgere o se non sia meglio, piuttosto ritagliarsi piccole isole di resistenza, piccoli atti di “sabotaggio” per impedire che la velocità eccessiva della vita ci porti a rimettere o a schiantarci. Ciascuno nel suo piccolo faccia suo “l’antifrenetico”. Godiamoci un caffè seduti, con calma, invece che di corsa e in piedi. Apparecchiamo la tavola con cura, anche se mangiamo da soli. Godiamoci persino (!) il lavoro, immersi in una e una sola attività, senza lasciarci interrompere dalle nuove email in arrivo. Facendo una cosa alla volta rischiamo persino di farla… bene. Leggiamo quel libro che aspetta da secoli, organizziamo quella benedetta cena continuamente rinviata, smettiamola di “incastrare” occupazioni come se stessimo giocando a tetris con le nostre vite, continuamente impegnati a essere impegnati. L’otium non è il padre dei vizi!
Sabato, 6 febbraio 2021
Note
- R. Scruton, La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio, trad. it., Vita&Pensiero, Milano 2008,p. 30.
- Ibidem.
- N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, trad. it., Adelphi, Milano 2001, p. 155.