Aurelio Carloni, Cristianità n. 409 (2021)
La pandemia e l’accelerazione dell’uso dei social media
La pandemia di origine cinese da Covid19, diffusasi nel mondo a partire dal febbraio del 2020, rappresenta un tempo forte che spinge molti a misurarsi con le proprie fragilità, a riflettere e a rispondere a domande sul senso della vita.
Proprio questa crisi sanitaria globale e le conseguenti limitazioni imposte alla socialità per combatterla hanno moltiplicato il tempo trascorso sul web e sui social media, con effetti spesso negativi negli utenti.
Questi mezzi digitali hanno prodotto un’infinità di stimoli quotidiani, con un «sovraccarico affettivo» che il «filosofo contadino» francese Gustave Thibon (1903-2001), pur in un altro contesto, descriveva così: «Gli eccitamenti di ogni genere vi sono fantasticamente moltiplicati. Per circolare nelle vie è necessaria una continua tensione; i manifesti, i giornali, la radio e il cinema portano continuamente all’individuo gli echi del mondo intero e vengono a irritarne l’ambizione, la sessualità, la golosità, ecc. L’anima scoppierebbe se dovesse reagire profondamente a ciascuna di queste sollecitazioni. Istintivamente — per salvarsi e conservare un minimo di equilibrio in mezzo a questo turbine indiavolato di eccitamenti — essa livella e automatizza le proprie reazioni». E così «[…] non è più capace di un sentimento profondo, di un’idea personale. Tutta la sua vita si stende in superficie: le passioni e le opinioni vi rotolano indefinitamente, ma ogni virtù di penetrazione si è dileguata da lei» (1).
Thibon scriveva questi suoi pensieri fra il 1934 e il 1939, quando ancora non c’era la televisione: oltre ai giornali, gli unici media dell’epoca erano la radio e il cinema.
Conseguenze sulla soglia di attenzione
Oggi la soglia dell’attenzione — cioè la capacità di ascolto efficace di un qualunque tema illustrato da un oratore — si è abbassata in maniera straordinaria e proporzionalmente alla crescita degli stimoli esterni. L’incrocio delle curve con cui si possono rappresentare tali fenomeni, quella crescente degli stimoli e quella calante dell’attenzione, genera due conseguenze:
- se si vuole ovviare all’abbassamento dell’attenzione, la necessità di una comunicazione sempre più veloce e sintetica, accompagnata da titoli e da immagini «forti», tali cioè da richiamare l’attenzione sempre più distratta dal continuo e assordante rumore di fondo;
- l’impoverimento del linguaggio, quindi del pensiero e, infine, dei rapporti umani.
Non toccherò il primo aspetto, perché, sia come problema, sia come soluzione, è sotto gli occhi di tutti, ma solo il secondo.
Lo «sbriciolamento del tempo» e la «frantumazione del reale»
Il filosofo Giovanni Reale (1931-2014) così descrive lo sbriciolamento del tempo: «Si noti, inoltre, come il flusso travolgente dei messaggi comunicati con i nuovi media sbricioli il tempo e ne faccia perdere il senso e la consistenza ontologica, contraendolo nel presente. Anzi il presente in molti casi si riduce al momentaneo, e il tempo si esaurisce in esso» (2). «È così — prosegue — che si perde nei giovani, ma oramai non più solo in loro, il senso del tempo e quindi del passato e del futuro» (3).
Questo è il problema: il tempo ha perso la sua unità. Tutto è diventato un ininterrotto e caotico fluire di stimoli che distraggono e impediscono di riflettere. Tutto è frantumato, come diceva del mondo moderno, con parole insieme tragiche e splendide, lo scrittore russo Aleksandr Solženicyn (1918-2008) all’Università di Harvard, negli Stati Uniti d’America, già nel 1978 (4).
Fino a qualche generazione fa il tempo era denso di significato. Riempito di azioni singole — ripetitive o originali, buone o cattive — aveva comunque una sua linearità.
Nel Medioevo — e in certe regioni italiane fino agli anni 1950 — si lavorava e contemporaneamente si lanciava un occhio al figlio che giocava vicino alla bottega o nei campi e, quando ci si prendeva una pausa dal lavoro, le interruzioni non erano stranianti, ma dedicate ai rapporti umani e in continuità con quello che si era lasciato per un momento.
Adesso, qualunque cosa si stia facendo, anche in chiesa o durante il pranzo con la famiglia, nel caso di molti la mano corre veloce al cellulare al suo primo vibrare. La mente divaga inseguendo angosciata il senso dell’ultimo whatsapp e la necessità di dare una risposta immediata per non uscire dal «loop della chat». I social media e la connessione senza limiti fanno credere a ciascuno di saperne di più rispetto a chi lo ha preceduto. In realtà si galleggia sul rumore. Ci si ferma ai titoli e si finisce con il sapere nulla di tutto.
Questo «rumore» infernale costringe gli uomini e le donne di oggi a rifugiarsi in luoghi sicuri simili alle grotte usate nell’era paleolitica dall’umanità per difendersi dalle intemperie e dagli animali selvatici. Nascono così le cosiddette echo chamber, vere e proprie trappole del pensiero e della ricerca della verità, in cui si ascolta unicamente l’eco delle opinioni proprie e di chi la pensa come noi. Siamo di fronte a una società che fugge il silenzio per sfuggire alle domande di senso della vita a cui non è in grado di dare risposte. Una società che corre veloce, che non dorme mai, che non è mai in silenzio perché ne ha paura.
Il cardinale Robert Sarah nella sua splendida conversazione con Nicolas Diat afferma: «Oggi troppo pochi sono i cristiani che accettano di rientrare in sé stessi per guardarsi dentro e lasciarsi guardare dentro da Dio. Ribadisco: sono troppo pochi coloro che accettano di confrontarsi con Dio nel silenzio, di lasciarsi infiammare in questo grande faccia a faccia. Uccidendo il silenzio, l’uomo uccide Dio. Ma allora, chi aiuterà l’uomo a tacere? Il suo cellulare suona in continuazione, le sue dita e il suo spirito sono sempre occupati a inviare messaggi… il gusto della preghiera è probabilmente la prima battaglia della nostra epoca» (5).
La modernità come congiura contro la contemplazione
È un mondo che impedisce la riflessione in generale e la contemplazione del reale, del creato e in definitiva del Creatore. Lo scrittore francese Georges Bernanos (1888-1948) scrive: «Non si capisce assolutamente niente della civiltà moderna se non si ammette per prima cosa che essa è una congiura universale contro qualsiasi specie di vita interiore» (6).
Congiura contro la contemplazione e contro una relazione corretta con Dio, con le persone e con le cose per arrivare a rivoluzionare anche il rapporto con sé stessi.
Siamo tutti spinti dall’informazione di tipo digitale e dalle continue sollecitazioni a diventare «tuttologi», persone che non osservano più la realtà come è, ma come immaginano che sia. La verità è negata nei fatti con opinioni che ciascuno dà su tutto senza alcun approfondimento se non quello di post di fonte incerta o sconosciuta. Anzi le fonti più accreditate ormai non sono più quelle delle persone più autorevoli ma di quelle più celebri per i motivi più improbabili. L’autorevolezza è stata soppiantata dalla celebrità, i sapienti dagli influencer.
Siamo entrati da decenni in quella condizione che Emanuele Samek Lodovici (1942-1981) definiva già alla fine degli anni 1970 «il culto dell’opinione»: «l’infinità delle informazioni, infatti — scriveva —, può essere tradotta nella infinità delle opinioni che si hanno sulle informazioni; qualunque cosa si possa pensare, purché si abbia un io disposto ad enunciarla, avrà eguale diritto ad essere espressa. […] Si finisce per seguire specularmente i rumori del giorno amputandosi dal passato, dai ricordi significativi sia personali sia sociali; e un uomo separato dal suo passato, un uomo che non ha più ricordi, è la preda più facile ed ambita da ogni totalitarismo» (7).
È questo il quadro in cui si pone l’apostolato
Quindi l’apostolato culturale, in generale quello della Chiesa cattolica e in particolare quello svolto da Alleanza Cattolica — ossia da quella realtà che, parte minuscola della prima, è così profondamente amata da chi fin da giovane ha trovato in essa la risposta alla propria vocazione pre-politica —, si trova collocato all’interno di questo contesto.
Ma che cosa è l’apostolato? Innanzitutto, è utile ricordare quanto insegnava il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (1938-2020), citando il pensiero del filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen (1904-1976): «[…] un sociologo non può scrollarsi di dosso la convinzione che le idee lasciate a se stesse abbiano poche possibilità. Le idee hanno bisogno di esseri umani che si impegnino per la loro diffusione, che le aiutino a imporsi, che addirittura coordinino di nuovo fra loro la loro efficacia. […] Concezioni come quella che “le idee di Rousseau e di Voltaire si sarebbero diffuse in Francia e avrebbero alla fine condotto alla Rivoluzione” sono fuori dal mondo» (8).
Se le idee non trovano gambe non vanno da nessuna parte
Dunque, le idee scritte in un libro non producono esiti storici se non vengono fatte proprie, incarnate da uomini che si organizzano e si impegnano per la loro diffusione. Da sole non vanno da nessuna parte. Sempre Giovanni Cantoni ricordava spesso che se le idee di Karl Marx (1818-1883) e di Friedrich Engels (1820-1895) non avessero incontrato Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) e la sua capacità di dare vita a un’avanguardia organizzata e con una precisa visione della vita e del mondo, non ci sarebbe stata la Rivoluzione bolscevica. Non sono le idee a muovere il mondo ma le idee incarnate.
La fede dipende dalla predicazione, quindi da una buona comunicazione
Quanto vale per le ideologie vale a maggiore ragione per la fede.
San Paolo ci ricorda che fides ex auditu, «la fede dipende dalla predicazione» (Rom. 10, 17). Un Vangelo chiuso che non sia aperto, letto e vissuto da un uomo che ne diffonda i suoi contenuti e il suo insegnamento divino, con la parola e l’esempio, non produce cristiani. Quindi l’apostolato ha come proprio canale privilegiato e insostituibile il rapporto personale.
Il Direttorio di Alleanza Cattolica, documento che ne raccoglie e descrive la natura e la missione, chiarisce il punto come segue: i militanti «[…] ricordano, con san Giovanni, che “chi[…] non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 20). Cioè, uno dei modi per confessare l’amore a Dio, che non vediamo, sta nel manifestare il nostro amore al prossimo, che vediamo.
«Ricordano, poi, che la misura dell’amore del prossimo è l’amore a noi stessi, e che, come ammonisce sant’Agostino (354-430), un modo per predestinarci alla salvezza sta nel contribuire alla salvezza del nostro prossimo (“animam salvasti, animam tuam predestinasti”)» (9).
I messaggi di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco
L’apostolato richiede la disponibilità a essere «missionari», pronti a fare, operare e dire tutto per il Signore, per la Sua maggior gloria e per l’evangelizzazione. La testimonianza parte dal modo di vivere. Oggi questa testimonianza richiede la conoscenza e lo studio della «cultura digitale».
Papa Benedetto XVI nel messaggio per la XLIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 24 maggio 2009, ha scritto: «Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco-romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo».
Don Giovanni Poggiali, presbitero della Fraternità San Filippo Neri di Filetto, in Lunigiana, in una meditazione in vista della Pasqua 2021 rivolta agli amici di Alleanza Cattolica, ha commentato: «Come allora… così ora… Queste parole di Benedetto XVI presentano la cultura contemporanea alla Chiesa: come gli apostoli, anche noi oggi ci troviamo come all’inizio di una storia nuova, depositari del mandato missionario del Signore. Siamo i missionari della “cultura digitale”, nel “continente digitale”, per i “nativi digitali” … È il cambiamento di un’epoca. È una nuova civiltà. Dobbiamo essere pronti.
«Come poter essere missionari in questo mondo? Come esserlo in un tempo penitenziale come la Quaresima?».
Papa Francesco offre una risposta chiara a questi interrogativi nel messaggio per la LV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 23 gennaio 2021: «Se non ci apriamo all’incontro, rimaniamo spettatori esterni, nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno la capacità di metterci davanti a una realtà aumentata nella quale ci sembra di essere immersi. Ogni strumento è utile e prezioso solo se ci spinge ad andare e vedere cose che altrimenti non sapremmo, se mette in rete conoscenze che altrimenti non circolerebbero, se permette incontri che altrimenti non avverrebbero».
«Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti».
«Ai primi discepoli che vogliono conoscerlo, dopo il battesimo nel fiume Giordano, Gesù risponde: “Venite e vedrete” (Gv 1,39), invitandoli ad abitare la relazione con Lui. […] La fede cristiana inizia così. E si comunica così: come una conoscenza diretta, nata dall’esperienza, non per sentito dire. “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito”, dice la gente alla Samaritana, dopo che Gesù si era fermato nel loro villaggio (cfr. Gv 4,39-42). Il “vieni e vedi” è il metodo più semplice per conoscere una realtà. È la verifica più onesta di ogni annuncio, perché per conoscere bisogna incontrare, permettere che colui che ho di fronte mi parli, lasciare che la sua testimonianza mi raggiunga.
«[…] Ma sono diventati evidenti a tutti, ormai, anche i rischi di una comunicazione social priva di verifiche. […] Tale consapevolezza critica spinge non a demonizzare lo strumento, ma a una maggiore capacità di discernimento e a un più maturo senso di responsabilità, sia quando sidiffondono sia quando si ricevono contenuti. Tutti siamo responsabili della comunicazione che facciamo, delle informazioni che diamo, del controllo che insieme possiamo esercitare sulle notizie false, smascherandole. Tutti siamo chiamati a essere testimoni della verità: ad andare, vedere e condividere.
«[…] La forte attrattiva di Gesù su chi lo incontrava dipendeva dalla verità della sua predicazione, ma l’efficacia di ciò che diceva era inscindibile dal suo sguardo, dai suoi atteggiamenti e persino dai suoi silenzi. I discepoli non solamente ascoltavano le sue parole, lo guardavano parlare. Infatti in Lui — il Logos incarnato — la Parola si è fatta Volto, il Dio invisibile si è lasciato vedere, sentire e toccare, come scrive lo stesso Giovanni (cfr 1 Gv 1,1-3). La parola è efficace solo se si “vede”, solo se ti coinvolge in un’esperienza, in un dialogo. Per questo motivo il “vieni e vedi” era ed è essenziale.
«[…] La buona novella del Vangelo si è diffusa nel mondo grazie a incontri da persona a persona, da cuore a cuore. Uomini e donne che hanno accettato lo stesso invito: “Vieni e vedi”, e sono rimaste colpite da un “di più” di umanità che traspariva nello sguardo, nella parola e nei gesti di persone che testimoniavano Gesù Cristo. Tutti gli strumenti sono importanti, e quel grande comunicatore che si chiamava Paolo di Tarso si sarebbe certamente servito della posta elettronica e dei messaggi social; ma furono la sua fede, la sua speranza e la sua carità a impressionare i contemporanei che lo sentirono predicare ed ebbero la fortuna di passare del tempo con lui, di vederlo durante un’assemblea o in un colloquio individuale. Verificavano, vedendolo in azione nei luoghi dove si trovava, quanto vero e fruttuoso per la vita fosse l’annuncio di salvezza di cui era per grazia di Dio portatore. E anche laddove questo collaboratore di Dio non poteva essere incontrato in persona, il suo modo di vivere in Cristo era testimoniato dai discepoli che inviava (cfr 1 Cor 4,17)».
Joshua Mitchell, docente alla Georgetown University di Washington (D.C.), uno dei massimi studiosi dello storico e uomo politico Alexis Henri Charles de Clérel visconte di Tocqueville (1805-1859), ha ricordato che «le vitamine possono essere un supplemento di un pasto, ma se diventano un sostituto del pasto, ci ammaliamo. Gli “amici” sui social media sono integratori della vera amicizia, ma non possono sostituirla» (10).
Una massima, questa, che può essere utile per trovare la giusta via per l’evangelizzazione di oggi: il mondo digitale può integrare il mondo analogico nell’apostolato, ma non può sostituirlo.
Eppure, questo è ciò che molti hanno creduto e credono, vivendo in vere e proprie bolle artificiali che rappresentano una realtà illusoria e tranquillizzano in quanto vere e proprie comfort zone dove tutto funziona come si vorrebbe. La realtà reale, però, è diversa. L’uomo non può vivere solo sui social media. Il mondo analogico è il regno dell’amicizia, del coraggio, dell’amore, della politica, del giudizio e dell’apostolato.
Allora quali conclusioni è possibile trarre per chi, come i militanti e gli amici di Alleanza Cattolica, opera per realizzare una società «a misura d’uomo e secondo il piano di Dio»? (11).
L’apostolato digitale come base possibile di quello analogico
Tutto lascia credere sia necessario tornare all’apostolato analogico, fatto di incontri, di caffè sorseggiati insieme, di telefonate e anche di citofonate. Quanto vale una telefonata oggi? E quanto deviare il proprio cammino per passare a casa dell’amico che si sa essere solo o in un momento di difficoltà?
È necessario alimentare nuovamente l’amicizia spirituale di cui parla lo scrittore inglese Clive Staples Lewis (1898-1963) nella sua opera su I quattro amori (12). Gli amici, come nota Lewis, non si guardano negli occhi l’uno dinanzi all’altro come fanno gli amanti, ma vanno avanti a fianco a fianco nella vita.
Dunque, che cosa fare?
È innanzitutto sempre particolarmente utile usare i social media per offrire informazione pensata e verificata. Si aiuta così il prossimo a combattere quel rumore di fondo fatto di notizie superficiali e infondate o costruite ad arte per orientare il destinatario verso visioni e tesi false.
Accompagnare la «relazione» digitale con telefonate, incontri o messaggi personali che devono partire non solo in occasione di inviti a conferenze ma anche in altri momenti. In una società atomizzata e destrutturata come l’attuale il rapporto personale, seppur a distanza, è fondamentale. È necessario far sentire che l’altro non è parte di un’azione di possibile proselitismo ma oggetto di un affetto sincero mosso dalla volontà di promuovere il suo bene e quello comune.
Per questo i messaggi vanno personalizzati nei toni e nei contenuti sulla base degli interessi delle singole persone.
Alcuni esempi possono aiutare a comprendere, spero, quanto scrivo. «L’inoltratore» seriale di post, messaggi, video, anche seri, su whatsapp non accompagnati da un commento o non seguiti da una telefonata o almeno da un messaggio personalizzato, sarà presto «silenziato» da chi intende l’apostolato come un incontro con Dio che si fa presente attraverso il prossimo che si sforza di incarnare, con tutte le fragilità del caso, il messaggio evangelico.
Altro comportamento che è bene tenere è quello dell’uso pacato delle argomentazioni, con i toni giusti, sempre rispettosi del pensiero altrui. Non vince chi grida di più, ma chi è nella verità e la sa rappresentare nella maniera più appropriata mostrandone la bellezza e il senso.
Stessa regola, non scritta, vale per l’uso di social come Facebook.
Il profilo personale in genere deve raccontare un po’ di sé stessi — senza scadere nell’intimismo e varcare i limiti posti dal buon senso —, della propria giornata o della propria famiglia. Momenti belli e qualche volta brutti possono essere descritti con misura. Ciò aiuta a far sì che un post di carattere formativo o in cui si propone una lettura equilibrata e controcorrente su un tema di attualità sia più facilmente visualizzato e letto.
Oggi la politica sembra aver perso totalmente il suo carattere di «forma più alta della carità, seconda solo alla carità religiosa verso Dio», come ebbe a dire Papa Pio XI (1922-1939), il 18 dicembre 1927, ai dirigenti delle Federazione Universitaria Cattolica, e come hanno ripetuto tutti i Pontefici da san Paolo VI (1963-1978) a Francesco.
La politica, chiamata a muoversi per il conseguimento del bene della società, principalmente per opera dello Stato, che è «abito» e organizzazione che nasce da questa, è divenuta ai nostri giorni il regno dell’agire spinto dal vento forte del relativismo nichilista in antitesi con la morale naturale e cristiana.
Fare apostolato sociale per porre le basi di una civiltà rispettosa della persona, della famiglia e dei corpi intermedi in una logica di sussidiarietà significa oggi ripartire dall’attenzione a queste realtà. Utilizzando tutti i mezzi disponibili per comunicare il bene e combattere ogni forma di disinformazione che miri a distruggere quanto rimane dei «princìpi non negoziabili» indicati da Benedetto XVI: la tutela della vita nascente e morente, la famiglia e la libertà di educazione.
Alleanza Cattolica con i suoi militanti, pur nella ristrettezza dei mezzi e delle risorse disponibili, quotidianamente risponde con l’apostolato digitale, attraverso il proprio sito e i suoi profili social, e con quello analogico del rapporto personale alla propria vocazione, nel ricordo sempre vivo del suo fondatore, «a maggior gloria di Dio, anche sociale» (13).
Note:
1) Gustave Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, trad. it., con una prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con considerazioni introduttive di Marco Respinti, Effedieffe, Milano 1998, pp. 11-145 (p. 25).
2) Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’uomo europeo, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 16.
3) Ibid., p. 17.
4) Cfr. Aleksandr Isaevič Solženicyn, Un mondo in frantumi, discorso pronunciato l’8-6-1978 all’Università «Harvard», in Idem, Il mio grido. Il prezzo della vigliaccheria è sempre e solo il male, trad. it., PianoB Edizioni, Prato 2015, pp. 42-66.
5) Card. Robert Sarah con Nicolas Diat, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, con prefazione di Benedetto XVI (2005-2013), trad. it., Cantagalli, Siena 2017, p. 69.
6) Georges Bernanos, Andar in fretta, d’accordo, ma dove?, in Idem, Ultimi scritti politici, trad. it., con una premessa di Gabriele De Rosa (1917-2009), Morcelliana, Brescia 1964, pp. 127-139 (p. 129).
7) Emanuele Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1991, pp. 126-128.
8) Arnold Gehlen, Uomo e istituzioni, 1960, in Idem, Prospettive antropologiche. Per l’incontro con sé stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, trad. it., il Mulino, Bologna 1987, pp. 95-106 (p. 105).
9) Cfr. Alleanza Cattolica, Direttorio. Profilo dottrinale e operativo proposto alla meditazione e alla pratica «ad experimentum» in occasione del Primo Capitolo Generale tenuto nel mese di maggio del 1977. Seconda versione proposta «ad experimentum» in occasione del Capitolo Generale tenuto nel mese di febbraio del 2011, n. 1.2.
10) Joshua Mitchell, Tocqueville in Cina, intervista a cura di Giulio Meotti, in il Foglio quotidiano, 9-5-2020.
11) Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, Loreto, dell’11-4-1985.
12) Cfr. Clive Staples Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, trad. it., Jaca Book, Milano 2015.
13) Cfr. Pierluigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, Cantagalli, Siena 2008.