di Stefano Chiappalone, del 20 gennaio 2018
Nel torpore del cristianesimo occidentale – e nella personale routine di ciascuno – l’arte cristiana troppo spesso considerata un relitto o, nella migliore delle ipotesi, una reliquia del passato, può costituire una salutare scossa proprio nella misura in cui ci conduce al di là della prospettiva quotidiana. Persino nelle forme più lontane dalla nostra sensibilità, essa può far riemergere in noi lo stupore per quella storia che ha cambiato il mondo, a partire da una casa di Nazareth dove questa bellissima ragazza di nome Maria, promessa sposa di un uomo di nome Giuseppe riceve una visita inattesa. Riprendendo un’espressione del Papa emerito Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi possiamo dire che l’annuncio cristiano (che partì da quel primo annuncio a Maria) è una verità performativa, non semplicemente informativa. Vale a dire che non si limita a informare, come tutte le news che leggiamo continuamente, talora compulsivamente sui giornali o sullo smartphone, ma è performativa nel senso che cambia la vita. Questo è tipico delle “buone notizie” che ci danno una svolta (e «buona notizia» è esattamente il significato di Vangelo). Se leggiamo che è stata approvata la tale legge o che c’è stato un incontro del G20 a Berlino o a Roma, non ne veniamo cambiati, semmai cambiamo pagina. Ma se qualcuno ci dà una notizia che ci tocca direttamente allora la nostra giornata riceve un cambio decisivo di direzione, una inversione a U (e questo è il significato di metanoia, cioè conversione). Grazie all’arte, in tutte le sue dimensioni (pittorica, scultorea, architettonica, musicale, letteraria…e tutte si ritrovano inglobate e sublimate nella liturgia) eventi e persone di duemila anni fa vengono sottratte alla cronaca e riportate alla luce perché il loro splendore si irradi anche ai nostri occhi.
Ma perché tra le notizie possa emergere la Notizia, è necessario che dalla lettura veloce si passi a quella meditativa, dalla frenesia alla contemplazione, soffermandosi spontaneamente a rileggere e a gustare come si fa con una lettera d’amore: è l’antica pratica della Lectio Divina. Si distingue da quella dei giornali e persino dei libri più coinvolgenti perché non ha uno scopo funzionale ma contemplativo. Non mira ad acquisire informazioni per cui una volta letto e imparato dall’inizio alla fine, si ripone tutto: il giornale va a finire nella raccolta differenziata della carta, il romanzo o il testo di studio vengono riposti nella biblioteca. È invece assimilabile a quella lettura “a spirale” con cui lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr descriveva, non a caso, l’approccio di fronte all’opera d’arte con evidente analogia con l’anno liturgico: a spirale, cioè in un continuo approfondire, gustare, scoprire nuovi dettagli, rivedere le stesse cose… che non sono però mai le stesse.