V domenica del Tempo ordinario
(Gb 7, 1-4,6-7; 1Cor 9, 16-19.22-23; Mc 1, 29-39)
La giornata tipo di Gesù è racchiusa in questa pagina dell’evangelista san Marco, nel corso della quale, uscendo dalla sinagoga, dove abitualmente insegnava commentando le Scritture, si reca a casa di san Pietro e vi guarisce la suocera di Simone, febbricitante. La sera stessa, tanti malati e indemoniati vengono portati presso la soglia di quella casa ed Egli ne guarisce molti (cfr Mc 1, 32 – 34).
Il mattino presto si alzava per la preghiera ed era disponibile solo e unicamente per il Padre Suo. Nell’autoregolamentazione della vita di Gesù, questo è l’unico aspetto inamovibile. Gesù al mattino cominciava la sua giornata con Dio. Primato alla vita del cuore, primato alla preghiera. Lui stesso ha sempre affermato che il bene che faceva, dipendeva dal suo mattino. Le primizie del raccolto, come del tempo, sono dedicate a Dio. Prima il Suo Regno, tutto il resto viene in sovrappiù. Noi sforziamoci di credere, come credeva Gesù. Chi dà il primato al Padre, sperimenta l’azione di rinnovamento spirituale della Grazia. Diveniamo anime raccolte nello stesso amore del Figlio verso la Verità. Prima di agire, presento tutto al Padre, per acquisire una santa conferma. Tutta la giornata diviene, allora, memoria ed “eucarestia” (dal verbo greco eukaristein, “ringraziare”). Tutto prende un buon sapore. Alla sera siano sempre ricchi di vita e di fede, per lodare e ringraziare Nostro Signore in eterno.
Ricorre tra pochi giorni, l’11 febbraio, la memoria delle Beata Vergine di Lourdes, corrispondente alla Giornata mondiale del malato. Circa un terzo del Vangelo è dedicato alla cura che Gesù aveva dei malati, impegno sempre congiunto all’annuncio: «Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2). La suocera di Pietro, ammalata, è la misura della condizione umana. Buddha era spietato nella sua analisi quando affermava che tutta la vita è dolore.
La Bibbia, nella prima lettura del Libro di Giobbe, è ancor più realista. Il tempo dell’uomo è un susseguirsi di mesi di illusioni e di notti di dolore, mentre la sua esistenza è paragonata al duro lavoro di uno schiavo. La vita è un soffio senza speranza. La venuta di Cristo porta una grande novità: prima della Sua croce, la malattia era vista come diretta conseguenza del peccato, non solo in termini generali, ma direttamente imputabile alla persona sofferente. Quindi la malattia era giusta espiazione: «Chi ha peccato perché quest’uomo nascesse cieco?» (Gv 9,2). E’ quanto venne chiesto a Gesù riguardo al cieco nato. Nell’antico Israele la lebbra, la malattia più temuta, era vista come una terribile eruzione esterna di un male interiore. Ma è Cristo crocifisso la vera misura del dolore. Anche l’uomo più fortunato nasce “malato” e “crocifisso”: conoscendosi interiormente, non può nascondere di essere fragile e caduco, tendente al peccato. Le sofferenze fisiche, morali e spirituali sono un peso gravoso impossibile da evitare. Qualche “gaudente” cerca di nascondere a se stesso questa condizione atavica, ma non c’è peggior atteggiamento di chi cerca, da attore maldestro, di coprire la sua disperazione.
In diversi grandi testi della cultura antica emerge l’intuizione di una caduta originale, confermata dalla Bibbia, ma soltanto la Scrittura rivela che il peccato viene da Satana e affronta il male alla radice. Dio non è il creatore del dolore e della morte, ma certo vi si è immerso. Quando non sappiamo come consolare una persona, poniamogli innanzi il Crocifisso: nessuno ha sondato l’oceano immane della sofferenza come il Figlio di Dio, e per paradosso non è mai stato così tanto “divino” come sulla croce, poiché è sul Golgota che si manifesta la pienezza della misericordia di Dio nei confronti degli uomini.
Sua Madre, presente sul Calvario, ci insegna a guardare oltre ciò che appare umanamente negativo, nella certezza che Dio non tradisce. La Vergine rimane ai piedi della croce, sofferente ma tutt’altro che disperata, e sostiene il Figlio sulla via dell’espiazione vicaria. Sembra dire: «Procedi Figlio, perché ti stai caricando di tutto il male dell’universo, per disporlo nell’ordine della croce. D’ora in poi il male, anche la malattia, avrà un altro senso: non più punizione, ma redenzione. Sarà a sempre a misura della tua salvezza».
In nessun angolo del mondo si è mai, neanche ipotizzato, che la divinità possa soffrire davvero. Soltanto Tu, Gesù, hai bevuto il calice amaro della sofferenza. La nostra sofferenza è ora assai preziosa per Gesù. Lo dice con la sua stessa croce, poiché essa è ora la misura del nostro dolore. Se Gesù non fosse morto in quel modo, se fosse morto in un letto o su un divano, non avrebbe nulla da insegnarci, non sarebbe stato credibile.
La malattia ha avviato la conversione di molti santi: sant’Ignazio di Loyola, per esempio, si convertì in seguito ad una ferita rimediata in battaglia, che lo tenne a lungo disteso nel letto. Certe pause forzate portano profonde riflessioni e conducono a scelte ottime e ponderate, che conducono ad una revisione completa del proprio stile di vita. Non pensiamo che il male fisico o la tribolazione quotidiana siano il male peggiore da portare: chi ha la pace nel cuore, vive anche le peggiori fatiche con superiore spirito di letizia, da uomo libero e consolato, come fu Gesù stesso in croce. La grazia di Dio può fare anche questo.
L’azione salvifica di Gesù è rivolta anzitutto contro il peccato, cioè la prima causa della sofferenza dell’uomo. Il peccato originale è voler fare a meno di Dio, fino ad adorare sé stessi. E’ sicura rovina e disperazione del cuore! Al mattino la parole più consone alla vita sono: «O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto». Ciò che più conta è guarire il cuore. Tutti abbiamo esperienza di persone anziane, afflitte da malattie e fatiche, che mantengono uno spirito di particolare letizia. E’ lecito, in caso di malattia, pregare per la propria guarigione: a volte Dio la accorda, in risposta alla nostra preghiera, se giova al nostro bene eterno. Meglio, però, affidarsi al Padre, coscienti che la via maestra è la Santa Croce. Gesù chiese nel Getsemani: «Padre, se è possibile passi da me questo calice; però non la mia ma la tua volontà sia fatta». Infatti la croce non gli fu risparmiata.
In questo modo, un malato non è affatto un membro passivo della Chiesa, ma una delle membra più fedeli al Crocifisso. Io stesso, come molti confratelli, riconosco che nel predicare la parola di Dio un aiuto inestimabile ci viene dall’offerta di sé di tante persone malate, che pregano per sostenere il nostro ministero. Quando siamo solleciti a guarire nella fede, Dio non manca di chinarsi sul nostro corpo malato. Quando non ci concede la guarigione, vediamo arrivare sempre grazie di sopportazione, a volte persino più grandi della guarigione stessa.
Chi si dedica ai malati è autentico figlio della carità e annuncia il Vangelo, con l’urgenza di san Paolo nella seconda lettura. Rischia spesso di ammalarsi egli stesso, ma è sempre pronto a donare la vita per gli amici: «Onora il medico come si deve, perché anch’egli è stato creato dal Signore» (Sir 38, 1). La medicina, gli ospedali, i lebbrosari, sono un frutto della croce. Soltanto alla sua ombra permangono luogo di speranza e fortezza contro l’ultimo atto dell’assenza di Dio. Cos’è l’eutanasia, in tutte le sue forme, se non una fuga dalla via maestra della Santa Croce? Un malato ha bisogno di cure mediche competenti, ma ciò che lo solleva è la speranza della vittoria vicina assieme all’amore di chi non lo abbandona: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25, 36.43). Se osserviamo le Scritture, Gesù spesso guarisce ammalati presentati a Lui da qualcuno che ha pregato per loro. Giovedì 11 febbraio, festa di Maria di Lourdes, ungiamo con olio di letizia anche gli anziani ultrasettantenni perché anche gli acciacchi dell’età sono spesso assimilabili alla malattia. «Soffrire significa diventare particolarmente sensibile all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo» (Salvifici Doloris, n. 23), forze che sono insite nel sacramento dell’Unzione degli infermi. E’ Gesù stesso che vuole toccare la tua lebbra, è la miglior tenda dell’ossigeno per un malato di Covid-19, perché malattia e morte non saranno mai debellate, ma devono essere cristianamente affrontate con superiore spirito di letizia. Concludo con le parole di san Giovanni Paolo II, molto provato nel suo letto di agonia, rivolte a tutti i malati: «Siate lieti, come io sono lieto».
Domenica, 7 febbraio 2021