III domenica di Avvento
(Sof 3, 14 – 17; Cant Is 12, 2 – 6; Fil 4, 4 – 7; Lc 3, 10 – 18)
Il Vangelo odierno scende molto nel concreto e addita ad ognuno i doveri del proprio stato. Tanti domandano a Giovanni il Battista cosa è meglio fare per vivere la sua stessa serenità. Lui indica i dieci Comandamenti sottolineati come fedeltà ai doveri lavoravi e famigliari. Non chiede miracoli, né macerazioni straordinarie, ma né più, né meno quanto ha vissuto Gesù stesso per trent’anni a Nazareth. E’ la quotidianità ordinata che si affida a Dio e procede in opere perseveranti, che non fanno rumore, ma cambiano il mondo. Lavoro e famiglia cattolici cambiano il mondo. Esiste una volontà di Dio attuabile, senza ansia, con l’impegno familiare e lavorativo che è più che sufficiente per erigere la Societas Christiana.
«Prega come se tutto dipendesse da Dio e lavora come se tutto dipendesse da te» (sant’Ignazio di Loyola). Attendi con speranza cristiana che ogni tua impresa, affidata al Signore, venga condotta a buon termine. L’Attesa sia colma di speranza, sia per una beatitudine al presente che sarà sempre provata dal contatto col male, sia verso quella perfetta ed eterna in cielo.
La terza domenica di Avvento è pervasa dal tema della gioia. Si chiama tradizionalmente “Domenica Gaudete”, dalle parole di san Paolo nella seconda lettura: «Rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto, rallegratevi». Per sottolineare questa intonazione di gioia, anche il colore liturgico oggi è diverso: rosa anziché viola.
San Paolo dà una indicazione molto pratica, su come deve comportarsi una comunità di salvati che vuole testimoniare la gioia e renderla credibile agli altri. Dice: «La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini». La parola greca che traduciamo con “affabilità” significa tutto un complesso di atteggiamenti, che vanno dalla clemenza alla capacità di saper cedere e di mostrarsi amabile, tollerante e accogliente. Potremmo tradurre tale parola, oltre che con “affabilità”, anche con “gentilezza”. La gentilezza è una virtù a rischio, o addirittura in estinzione nella società in cui viviamo. La violenza gratuita nei film e nella televisione, il linguaggio volutamente volgare, la gara a chi si spinge oltre il limite del tollerabile in fatto di brutalità e di sesso esplicito in pubblico: tutto ciò ci sta rendendo assuefatti a ogni espressione del brutto e del volgare.
La gentilezza è un balsamo nei rapporti umani. Si vivrebbe tanto meglio in famiglia, se ci fosse un po’ più di gentilezza nei gesti, nelle parole e prima di tutto nei sentimenti del cuore. Nulla spegne la gioia di stare insieme, quanto la rozzezza del tratto. «Una risposta gentile – dice la Scrittura –
calma la collera, una parola pungente eccita l’ira…Una lingua dolce è un albero di vita» (Prv 15,1.4). «Una bocca amabile moltiplica gli amici, un linguaggio gentile attira i saluti» (Sir 6,5).
Una persona gentile lascia una scia di simpatia e di ammirazione dovunque passa. La prima frase che viene pronunciata, appena essa si è allontanata, è: «Che persona gentile». Accanto a questo valore umano, dobbiamo riscoprire il valore evangelico della gentilezza, che non è solo questione di educazione e di buone maniere. Nella Bibbia il termine “mite” e “mansueto” non hanno il senso passivo di “sottomesso”, “remissivo”, ma quello attivo di persona che agisce con rispetto, cortesia, clemenza verso gli altri. E’ dunque l’elogio della gentilezza che fa Gesù quando dice: «Beati i miti», o quando invita: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore». La gentilezza è indispensabile soprattutto a chi vuole aiutare gli altri a scoprire Cristo. L’apostolo Pietro raccomandava ai primi cristiani di «essere pronti a rendere ragione della propria speranza», ma subito aggiungeva: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,15s), che è come dire con gentilezza. Sono questi i modi semplici e alla portata di tutti di testimoniare anche oggi la gioia. La gioia cristiana è comunitaria, non solitaria; nessuno può essere felice da solo. Il comando «rallegratevi» significa anche “spandete allegria”. Non si deve aspettare di essere perfettamente sani e di buon umore per fare un sorriso a qualcuno. Bisogna saper tenere per sé qualche cruccio e condividere con gli altri le cose positive e la gioia, non il contrario, cioè tenere per sé la gioia e condividere con gli altri solo i crucci e le pene.
Il profeta Isaia riferisce che a suo tempo i popoli vicini sfidavano i figli di Israele, dicendo: «Fateci vedere la vostra gioia»! (Is 66,5). Il mondo non credente, o che è in ricerca della fede, dice ai cristiani la stessa cosa: «Fateci vedere la vostra gioia!». Cerchiamo dunque, se ci riusciamo, di far vedere al mondo, a partire da chi ci vive accanto, un po’ della nostra gioia.
Domenica, 12 dicembre 2021