III domenica del Tempo ordinario
(Ger 1, 4 – 5.17 – 19; Sal 70; 1Cor 12, 31 – 13, 13; Lc 4, 21 – 30)
Paragonando le due realtà, spirito e materia, e volendo fare gli spiritosi con un prete, soprattutto coloro che lavorano a contatto stretto con l’industria o l’artigianato ogni tanto usano espressioni di questo tipo: «Beati voi che potete parlare di cose che non esistono e che si possono girare come si vuole. Io devo lavorare con la materia dura, che fa resistenza. E’ faticoso doverla vincere continuamente». Chi vive di questi lavori particolarmente faticosi, dove le tue mani devono dare forma alla materia grezza, arriva però a sentire il desiderio di un mondo differente e libero dalla fatica di “piegare la materia”. Infatti i materialisti, anche se spesso non lo ammettono, nutrono una certa nostalgia del mondo spirituale.
La parola “spirito” ha la stessa radice semantica del respirare. Quando si cessa di respirare subentra la morte: si conclude spontaneamente che lo spirito è principio di vita. Anche se un soffio sembra cosa dappoco, ha tuttavia conseguenze molto gravi. Platone ed altri filosofi, stando innanzi alla morte, affermavano che il tesoro più importante era nell’uomo interiore, non in quello esteriore. Mentre l’uomo esterno è visibile, corporale, soggetto alle leggi della materia, sentiamo dentro di noi un altro uomo invisibile, libero dai limiti imposti dalla materia. In altre parole, siamo composti da due elementi differenti: dal corpo e dall’anima. Non sono stati i cristiani per primi ad insegnare che l’uomo è composto dal corpo e dall’anima, lo dissero già Platone e Aristotele. Oltre alla dimensione corporale-materiale, l’uomo pensa. Il suo pensiero vola attraverso tutti gli spazi e i tempi, è libero di spostarsi dove vuole. Queste sono le proprietà della nostra anima, la quale, per poterlo fare, deve essere immateriale, spirituale.
Da questa antropologia segue una grande conseguenza morale. La dignità dell’uomo è nella capacità di sviluppare le doti dell’anima, soprattutto la saggezza. Nell’antica Grecia si veneravano i sette saggi e si coltivava la filosofia, che letteralmente significa “amore della sapienza”. Non era facile seguirli, per chi era costretto a lavori pesanti per vivere, ma i cristiani scoprirono che vi era una saggezza superiore a quella dei Greci: la Sapienza del Vangelo. Il saggio sa pensare in modo logico e preciso, e apprende tante cose che gli altri non sanno, ma il saggio cristiano sa distinguere ciò che è bene da ciò che è male, lo sente nel suo cuore. Inoltre è capace di amare tutti, persino i nemici. Da dove proviene questa capacità? Non dal corpo, e neanche dall’anima razionale. L’amore, la carità, provengono da Dio, perché Dio è carità (1Gv 4,8). Allora colui che è capace di amare ha dentro di sé una proprietà divina che, secondo la terminologia biblica, è chiamata Spirito, scritto questa volta con la maiuscola perché si tratta della terza persona divina, lo Spirito Santo.
Possiamo quindi indicare tre fondamentali posizioni antropologiche. La prima è quella rappresentata dai materialisti puri: pensano che l’uomo sia tutto materia, una specie di macchina perfetta. Una seconda posizione è quella rappresentata dai grandi filosofi, che difendono una composizione umana dicotomica, doppia: l’uomo composto di anima e di corpo. Infine, in terzo luogo, vengono i cristiani che, come sant’Ireneo di Lione, hanno introdotto la cosiddetta “tricotomia”. Il cristiano è composto da tre elementi: il corpo, l’anima e lo Spirito Santo.
Ogni elemento si riconosce secondo la propria attività. Che abbiamo il corpo ci convince il fatto che ci muoviamo, mangiamo, ci ammaliamo. L’esistenza dell’anima è provata dal fatto che possiamo studiare, riflettere, ragionare, decidere. Lo Spirito è Dio, quindi l’uomo che ha lo Spirito deve fare opere che superano la capacità umana.
Il libro degli Atti degli Apostoli fu chiamato «Vangelo dello Spirito Santo». Vi si descrive la venuta dello Spirito Santo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste e, poi, tanti fatti miracolosi che superano il potere umano, fra i quali in primo luogo la conversione di san Paolo: da nemico accanito dei cristiani ad apostolo di Gesù e martire per la fede. E’ lui che ha cercato nella Prima Lettera ai Corinzi di elencare le principali manifestazioni dello Spirito Santo nella Chiesa antica: (cfr 1Cor 12,27 – 31). Comunemente si chiamano “carismi” e colpiscono per il loro carattere straordinario, come i miracoli di Gesù. Infine san Paolo si chiede se tutti possono avere questi doni straordinari. In termini attuali ci si domanderebbe se tutti i cristiani possono essere carismatici. La risposta è negativa. Allora, come provare che possiedono lo Spirito Santo?
L’insegnamento di san Paolo è divenuto fondamentale per la Chiesa: la prova più certa della presenza dello Spirito è la carità. «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna» (1Cor 13, 1). Tutti gli uomini hanno nel cuore un desiderio insaziabile di incontrare l’amore. La Chiesa cattolica promette di infonderlo per mezzo del Battesimo nei cuori e coltivarlo con l’assistenza dello Spirito Santo. Perciò anche i materialisti e gli altri che si dicono atei, se sinceri, hanno nel profondo del loro cuore la nostalgia dello Spirito. Tutto sta nel seguirne la voce.
Domenica, 23 gennaio 2022