XVIII domenica del Tempo ordinario
(Qo 1,2; 2,21-23; Sal 89; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21)
C’è nella parabola una parola molto forte riservata al suo protagonista. «Stolto», gli dice una voce nella notte. E’ facile capire che cosa voglia sottintendere questa parola: «Tu sei fortunato, ma sei privo di senno. Possiedi tutto, ma ti manca la cosa più importante: sei nell’imbecillità».
Perché il ricco della parabola si merita un giudizio così severo? Anzitutto perché ha rinunciato alla sua anima. L’anima è per lui semplicemente il suo io. E lo spirito che conta, per lui, è soltanto lo spirito “proprietario”, che si compiace di accumulare e di godere. E’ chiaro che si tratta di un’esistenza spenta e senza avvenire. Come potrebbe dirsi viva un’esistenza priva di legami affettivi, di responsabilità sociali, di interessi capaci di travalicare la sfera del puro piacere egoistico? Se Dio ad un certo punto interviene a togliergli la vita, non fa che ratificare una condizione di morte che è già in atto.
La morte in questo caso non toglie nulla, perché agisce su un essere che non ha più nulla di vitale. Quanto detto basterebbe a spiegare perché il ricco della parabola sia chiamato “stolto”, cioè dissennato. Il discorso può risultare più convincente se si pensa che lo spirito proprietario è uno spirito colpevolmente smemorato. Ogni forma di possesso è precaria, nulla porti nell’aldilà. Il ricco, oltre a dimenticare che tutte le cose sono deperibili e che non c’è assicurazione al mondo che le assicuri per sempre (il tempo è nelle mani di Dio), dimentica anche che a procurargli quei beni hanno concorso in molti. Ha pensato a quel Dio che lavora la terra con il sole, le piogge, le albe e i tramonti? Ha pensato ai tanti collaboratori che hanno faticato per lui? Quando dice: «“I miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni», sembra che abbia cancellato ogni senso di riconoscenza e di debito. E se non avverte alcun obbligo nei confronti di chi lo ha aiutato, tanto meno è sfiorato dal pensiero di dover condividere un po’ delle sue ricchezze con quelli che per vivere neppure hanno il necessario. La Chiesa nei primi tempi ha predicato con forza la responsabilità sociale della ricchezza, tanto che alcuni Padri della Chiesa, quando vedevano che c’era chi aveva troppo e chi non aveva nulla, non esitavano a dire: «I ricchi o sono ladri, o figli di ladri». Era solo un modo provocatorio per far capire che la ricchezza, quando non esprime alcuna sensibilità sociale, diventa un furto, non importa se legalizzato. Il ricco del Vangelo, certo, non aveva alcuna famigliarità con questi discorsi. Ecco dove sta la sua stoltezza: per vincerla l’unico modo è arricchire davanti a Dio. Non è un approccio meramente spiritualistico all’esistenza, come se i bisogni materiali non esistessero. Si può essere santamente miliardari! La ricchezza per Gesù non è mai una maledizione,
Lui stesso ha saputo godere dei beni della terra e di tutto ciò che rallegra l’esistenza. Mai che abbia rifiutato un buon pasto quando gli veniva offerto. Nella casa di Simone e in quella di Lazzaro ha accettato perfino l’omaggio di un profumo costosissimo. Ma voleva sottolineare l’importanza dell’uso della ricchezza secondo la volontà di Dio.
Anche il preambolo della parabola denuncia lo spirito proprietario. “Casto” significa che “non possiedo”, ma uso tutto quanto Dio mi ha dato come un talento da trafficare innanzi a Dio. Nel preambolo si fa riferimento ai beni spirituali. Un uomo chiedeva a Gesù giustizia in una questione che riguardava la spartizione di un’eredità. In una delle solite beghe, che sono la gioia degli avvocati e la rovina delle famiglie, costui aveva ricevuto un sopruso. La richiesta era dunque legittima. Eppure Gesù risponde quasi con durezza, dichiarando la sua assoluta incompetenza: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». Sembra che non si preoccupi di una palese ingiustizia. In realtà gli sta più a cuore che non si faccia confusione: si preoccupa che il suo messaggio appaia chiaramente per tutti l’annuncio del Regno di Dio e non, direttamente e per sé, la sistemazione delle cose del mondo. Tocca a noi, ora, essere collaboratori di Dio ed edificare una società cristiana. Certo, Egli è giudice, ma è il Giudice che giudicherà i vivi e i morti, cioè giudicherà ciascuno al termine della sua vita su tutto ciò che ha compiuto. Certo, Egli è mediatore, ma non delle liti tra noi: è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, che può riconciliare con il Padre. Allo stesso modo la Chiesa immette nel cuore dei popoli, col desiderio del Regno, un’invincibile nostalgia di giustizia anche terrena, ma il suo compito resta primariamente la redenzione del cuore e la salvezza terrena dell’uomo.
Domenica, 31 luglio 2022