III domenica di Avvento
(Is 35, 1-6°.8°.10; Sal 145; Gc 5, 7-10; Mt 11, 2-11)
«Rallegratevi sempre nel Signore ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4-5).
Sono le prime parole con cui la liturgia accoglie oggi quelli che vanno a Messa. Da esse la presente domenica prende il nome di “Domenica della gioia” (Gaudete). Anche il colore liturgico può essere diverso: non l’austero violaceo, ma il rosa. Questa è l’occasione propizia per parlare di una cosa che i credenti e i non credenti hanno in comune, il desiderio di essere felici. Tutti vogliono essere felici. Se possiamo rappresentarci l’intera umanità, nel suo movimento più profondo, vedremmo una folla immensa intorno ad un albero da frutto, ergersi sulla punta dei piedi e protendere disperatamente le mani, nello sforzo di cogliere un frutto che però sfugge a ogni presa. La felicità, ha detto Dante, è «quel dolce pomo che per tanti rami, cercando va la cura dei mortali».
Se tutti cerchiamo la gioia, perché così pochi sono veramente felici, e anche quelli che lo sono lo sono per così poco tempo? Io credo che la ragione principale sia che, nella scalata alla felicità, sbagliano versante, scegliamo un versante che non porta alla vetta. Non è difficile scoprire dove si annida l’errore. La rivelazione dice: «Dio è amore»; l’uomo ha creduto di poter rovesciare la frase e dire: «L’amore è Dio!», come credeva L. A. Feuerbach, (1804-1872), filosofo tedesco molto critico verso la religione. Ancora, la Rivelazione dice: «Dio è felicità», ma l’uomo inverte di nuovo l’ordine: «la felicità è Dio!».
Ma cosa avviene in questo modo? Noi non conosciamo in terra la felicità allo stato puro, assoluta, come non conosciamo l’amore assoluto; conosciamo solo frammenti di felicità, che si riducono spesso a ebbrezze passeggere dei sensi: gioie di vetro che abbagliano per un istante, ma recano in sé l’angoscia di poter andare in frantumi da un momento all’altro. Quando perciò diciamo: «La felicità è Dio!», noi divinizziamo le nostre piccole esperienze; chiamiamo “Dio” l’opera delle nostre mani, o della nostra mente. Facciamo della felicità un idolo. Questo spiega perché chi cerca Dio trova sempre la gioia, mentre chi cerca la gioia non sempre trova Dio. Chi cerca la felicità prima che Dio e fuori di Dio non troverà che un suo vano simulacro, una “balia asciutta”, «cisterne screpolate che non contengono acqua» (Ger 2,13). L’uomo si riduce a cercare la felicità per via di quantità: inseguendo piaceri ed emozioni via via più intensi, aggiungendo piacere a piacere. Come il drogato che ha bisogno di dosi sempre maggiori, per ottenere lo stesso grado di piacere. Solo Dio è felice e fa felici. Per questo il Salmo ci esorta: «Cercate la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). Con Lui anche le gioie della vita presente conservano il loro dolce sapore e non si trasformano in angosce. Non solo le gioie spirituali, ma ogni gioia umana onesta: la gioia di vedere crescere i propri figli, del lavoro felicemente portato a termine, dell’amicizia, della salute ritrovata, della creatività, dell’arte, della distensione a contatto della natura. Solo Dio ha potuto strappare dalle labbra di un santo il grido: «Basta, Signore, con la gioia; il mio cuore non può contenerne di più!». In Dio si trova tutto quello che l’uomo è solito associare alla parola felicità e infinitamente di più, «occhio non vide, orecchio non udì, né mai salì in cuore di uomo quello che Dio tiene preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). La Bibbia descrive la vita eterna con le immagini della festa, del banchetto nunziale, del canto e della danza. Entrare in essa è fare l’ingresso definitivo nella gioia: «Entra nel gaudio del tuo Signore!» (Mt 25,21). E’ ora di cominciare a proclamare con più coraggio «il lieto messaggio» che Dio è felicità – non la sofferenza, la privazione, la croce – non avranno l’ultima parola. Che la sofferenza serve solo a rimuovere l’ostacolo alla gioia, a dilatare l’anima, perché un giorno possa accoglierne la misura più grande possibile.
L’umanità ha finito per convincersi di dover scegliere tra Dio e la felicità. Abbiamo fatto inconsapevolmente di Dio il rivale, il nemico della gioia dell’uomo. Un Dio “invidioso”, come quello di certi scrittori pagani. Ma questa è l’opera per eccellenza di Satana, l’arma che usò con successo con Eva. Però la gioia è come l’acqua corrente: bisogna darne per riceverne.
«Fateci vedere la vostra gioia!», dicevano agli ebrei, in tono di sfida, coloro che li avevano deportati (Is 66,5). Anche ai cristiani, i non credentirivolgono tacitamente la stessa sfida: «Fateci vedere la vostra gioia!». Come testimoniare la gioia? San Paolo, dopo aver esortato i cristiani a «rallegrarsi sempre», aggiunge subito: «La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini» (Fil 4,5).
La parola “affabilità” indica qui tutto un complesso di atteggiamenti fatto di indulgenza, di bontà d’animo, di capacità di saper cedere. I credenti testimoniano la gioia quando evitano ogni acredine e puntiglio personale, quando sanno irradiare fiducia. Chi è felice non è amaro e pignolo, non sente il bisogno di stare a puntualizzare su tutto e sempre, sa relativizzare le cose, perché conosce qualcosa che è troppo più grande.
Domenica, 11 dicembre 2022