Domenica di Pentecoste
Gli Atti degli Apostoli descrivono l’accadimento della Pentecoste evidenziando alcuni segni esterni, confermati dalla vita dei santi mistici della Chiesa cattolica. Anzitutto gli Apostoli udirono dal cielo un rombo, come può essere provocato da un vento impetuoso, chiaramente udibile. Successivamente, quando già gustavano anche nel corpo una meravigliosa presenza vivificante e sanificante, videro fiamme di fuoco posarsi sopra il loro capo. Seguì ciò che non è visibile immediatamente ai sensi, ma che traspare dai volti distesi e pacificati di coloro che dimorano nella Verità. Diciamo pure, senza esagerare, che i discepoli vennero trasfigurati, il loro essere “tempio del Paràclito” si manifestò anche nel passo, nel sorriso, nel buon senso tipici di un’anima sempre fresca e rinnovata dallo Spirito datore di vita: questo significa che «Tutti furono pieni di Spirito Santo».
Dovunque nella chiesa si veda una fiamma, sia che si tratti del cero eucaristico come di ogni altro lume, si intende Gesù Cristo stesso, con la luce e il calore che Egli porta alla nostra esistenza. Cosa significa essere pieni di Spirito Santo? E’ un’esperienza travolgente dell’amore di Dio. E’ come se una forza, energica e diffusiva, ma contemporaneamente calda e amica, ti travolga e doni a tutta la tua persona un’armonia che non potrebbe essere più tonificante. E’ la vittoria della vita, che soltanto l’Emmanuele sa dare: «Voglio che abbiano vita e l’abbiano un abbondanza» (Gv 10,10).
E’ san Paolo stesso che ce lo assicura quando afferma: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Questa esperienza è descritta in tutti i grandi convertiti. Unanimemente, affermano di aver provato una grande vicinanza col Padre, gustando interiormente un amore tenerissimo, infinito, e la dolcissima presenza del Signore Gesù. Si riapre così la comunicazione tra Dio e l’uomo. E’ come partire col piede giusto per un percorso che comunque impegna tutta la nostra persona (intelletto, volontà e sentimento) per aderire alla Verità rivelata, come accadde anche a san Paolo, il quale, dopo la sua conversione, per alcuni anni non professò pubblicamente la fede, ma si preoccupò di conformarsi ad essa, rivedendo tutta la sua vita alla luce della verità suggerita dalla terza persona della SS.Trinità. Infatti, lo Spirito Santo è presentato come Colui che interpreterà in pienezza le parole del Cristo, svelandone tutte le dimensioni e tutti i segreti. Il messaggio di Gesù, attraverso lo Spirito presente nel credente e nella comunità dei fedeli, raggiungerà il suo livello più alto di trasparenza. Questa funzione dello Spirito Santo è così basilare che egli viene chiamato per eccellenza «Lo Spirito di Verità».
E’ indispensabile precisare questo lessico dello Spirito, che in Giovanni acquista un senso precipuo.
Nel nostro linguaggio corrente la parola “verità” è usata come sinonimo di “veridicità”: sarebbe a dire “assenza di falsa testimonianza”, è come la fedeltà assoluta alla parola data. Nel quarto Vangelo invece, “verità” è sinonimo proprio di “vangelo”, “buona notizia”, definizione che corrisponde alla stessa persona di Gesù Cristo. La sera di Pasqua, come è noto, il Risorto ritorna nel cenacolo e dice ai suoi discepoli: «Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22 – 23). Questa celebre pagina è detta “Pentecoste giovannea” ed è direttamente legata a quel sacramento che porta il nome di “Riconciliazione”. La Confessione dà il gusto interiore della presenza del «Consolatore Ottimo» quando un’anima si libera dal peso dei propri peccati. Tutte le parole di Gesù acquisteranno ora, oltre ai sensi letterale, metaforico e morale, anche un profondo senso spirituale, come nel colloquio con Nicodemo, laddove Gesù afferma: «Se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel Regno di Dio» (Gv 3,5). L’importanza del corpo come tempio dello Spirito Santo è riaffermata durante la cacciata dei venditori dal Tempio: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Dopo la Pentecoste i discepoli ricordarono e compresero che in quell’occasione Egli parlava della Sua risurrezione dalla morte. La Rivelazione è perfettamente una e trina, come il Rivelato: essa prende la sua origine dal Padre, viene attuata dal Figlio e si perfeziona nello Spirito. Gesù è il perfetto rivelatore del Padre, ma lo Spirito di verità introduce i credenti al senso pieno delle parole di Cristo.
La grandezza dell’evento della Pentecoste si manifesta, in particolare, nel fenomeno straordinario delle lingue: «E cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Nonostante il gran numero di linguaggi uditi, tutti compresero con mirabile chiarezza e unità. Sappiamo fin dalla Genesi che la pluralità delle lingue non è un fattore originario. Un tempo tutta l’umanità si esprimeva con un solo linguaggio, chiaramente infuso dal Signore, come confermano diversi studi in campo linguistico, ma poi la divisione introdotta dal peccato colpì anche questo settore della comunicazione umana. A Gerusalemme, nel giorno della Pentecoste, c’erano persone di ogni nazione sotto il cielo (Parti, Elamiti, Medi…), ma «Ciascuno li sentiva parlare la propria lingua». Siamo veramente all’opposto di quanto accadde durante la costruzione della torre di Babele (confusa con Babilonia), quando Dio moltiplicò le lingue dei manovali affinché non potessero collaborare ad un’opera così malvagia. Nella Pentecoste ognuno parla la sua lingua, ma tutti si comprendono. Il motivo di questa contrasto è insito nel cuore e nelle intenzioni dei protagonisti. A Babele vogliono edificare una torre che raggiunga il cielo, luogo di Dio, unicamente con le forze umane e dare orgogliosamente il nome, cioè l’essenza, a tutte le cose esistenti, che invece hanno già il senso che Dio ha loro attribuito. A Gerusalemme (“città della pace”) il Signore, vedendovi riunita la comunità dei fedeli e degli umili di cuore, mandò loro la grazia dello Spirito Santo, che donasse la conoscenza di tutte le lingue affinché, con esse, convocassero tutti i popoli nelle loro diverse culture ricostituendo un’unica città santa, la Chiesa di Cristo. Dalla volontà di potenza, legge dell’egoismo, di Babele, si passa alla volontà di servizio all’Amore e alla proclamazione del nome di Dio. La pace che solo Gesù sa dare scavalca qualunque ostacolo ed è subito comunicativa, spazza via ogni dubbio e ogni tristezza.
Il santo della comunicazione per eccellenza, non è lontano da noi. E’ il novecentesco san Pio da Pietralcina (1887-1968), a cui tanti attori e registi hanno dovuto rendere omaggio per la sua capacità comunicativa, dovuta alla grande umiltà e alla pace interiore di questo padre cappuccino. Padre Pio confessava in diverse lingue che non aveva mai imparato, come nel caso di un marinaio nero, venuto apposta da Toronto, che parlava solo il gergo degli scaricatori di porto di New York. Parlava con padronanza anche dialetti africani e conosceva ideogrammi cinesi. Certamente ci si può riferire anche al racconto della Pentecoste. Umanamente è inspiegabile, ma lo Spirito Santo travolge qualunque dogma razionalista e soffia dove e come vuole. Teresa Neumann, la stigmatizzata tedesca (1898 – 1962), aveva visioni sbalorditive della Passione di Cristo e parlava in aramaico, la lingua di Gesù, che evidentemente non aveva mai sentito prima. In tutto ciò è contenuto un monito di grande importanza odierna. Viviamo nella così detta “infosfera”, cioè nella comunicazione informatica globale e ininterrotta. E’ un progresso grandioso, di cui essere grati a Dio, ma come ogni grande innovazione scientifica, se non è sorretta da una adeguata capacità d’uso altamente morale, si ritorce contro noi stessi. Una comunicazione fine a sé stessa, soltanto orizzontale, superficiale e spesso manipolata per fini di lucro, finisce con l’ergersi contro la Verità naturale eterna e cristiana. L’una cancella le altre: la comunicazione diviene uno scambio di povertà, di ansie e urla di aiuto silenziose e inascoltate. Più cresce la comunicazione, più si sprofonda in un pozzo di incomunicabilità e solitudine, una vera orgia comunicativa. Vogliamo oggi riscoprire il senso profondo della Pentecoste, l’intima relazione con Dio nello Spirito Santo, che fa si che l’uomo comprenda in modo nuovo anche se stesso, la propria umanità. Viene così realizzata quell’«immagine e somiglianza di Dio» che è l’uomo sin dall’inizio. L’unico debito che abbiamo verso il prossimo è di porgergli l’amore eterno di Dio, frutto della Pentecoste. Al prossimo va trasmessa la vita eterna e una dose abbondante di Spirito buono, che tracimi da quel tempio consacrato che deve essere la persona stessa di ogni buon cattolico. Questo è il bene veramente comunicativo. Babele e Pentecoste sono sempre lì, innanzi a noi, come modelli antitetici che ci chiamano sempre ad una scelta. La magnifica sequenza che cantiamo oggi nella liturgia, il Veni Sancte Spiritus, ci riempia di Dio e faccia di noi una sorgente di vita eterna a cui tutti possano attingere.
Domenica, 23 maggio 2021