Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 119-120 (1985)
Due note del sovietologo Pierre Faillant de Villemarest, redatte rispettivamente l’una prima dell’annuncio ufficiale del decesso di Konstantin Cernenko – e pubblicata in Francia e in Svizzera all’inizio di marzo – e l’altra dopo l’insediamento di Mikhail Gorbaciov.
Prima e dopo il cambio della guardia al Cremlino
L’èra di Gorbaciov, ovvero il nazionalcomunismo sovietico al potere
1. Il crepuscolo della gerontocrazia moscovita e il domani di Gorbaciov
Privato o meno dell’uso della parola, comunque gravemente ammalato, Konstantin Cernenko ha dovuto decidersi, dopo la sua ultima comparsa in pubblico del 24 gennaio 1985 in occasione di una riunione del Politburo, a passare la mano a una «cellula di crisi» – come si dice in Francia – della quale il cinquantaquattrenne Mikhail Gorbaciov è, di fatto, il personaggio principale.
Inoltre, l’allontanamento di Yuri Breznev, figlio di Leonid Breznev e primo viceministro del Commercio Estero, dalla deputazione della più importante fra le quindici repubbliche dell’URSS – allontanamento che segue quello di suo cugino dalla carica di primo viceministro dell’Interno – conferma la nuova tappa dello stesso Gorbaciov verso il potere supremo, mentre la insistenza della televisione sovietica nel mostrare che Cernenko è ormai uno zombi, mira a fare comprendere alla Nomenklatura che per essa è giunta l’ora di allinearsi sulle posizioni del «delfino».
Fare commenti sull’uomo che se ne va e su quello che sembra gli succeda non serve a nulla se non ci si immerge nei retroscena del potere. L’entourage del «delfino» non è assolutamente «moderato», e lo sarà sempre meno, a partire dall’anno in corso, dal momento che le stesse cause producono gli stessi effetti.
Infatti, da un anno a questa parte tutto è rimasto fermo a causa della impossibilità da parte dei «riformisti», dietro a Gorbaciov, di imporsi completamente ai «conservatori» brezneviani su uno dei soli piani sui quali essi sono veramente in opposizione, cioè quello relativo alle modalità per uscire dal vicolo cieco economico in cui si trova l’URSS.
Il fatto che la produzione di carne, di uova e di burro da due anni a questa parte abbia registrato progressi, anche se non proporzionali alla crescita della popolazione, non impedisce il disastro agricolo. Importare cinquanta milioni di tonnellate di cereali equivale a spendere nove miliardi di dollari. Il calo della estrazione di petrolio non mette a posto la situazione, come non la mettono a posto la infrastruttura stradale – in condizioni tanto deplorevoli, sessantotto anni dopo la Rivoluzione, che, anche nel periodo estivo, la media oraria dei trasporti raggiunge a stento i venticinque chilometri all’ora -, né la integrazione troppo lenta nei meccanismi industriali dei materiali, dei macchinari, dei circuiti elettronici, e così via, nella maggior parte dei casi acquistati all’estero, senza personale in numero sufficiente per la loro utilizzazione. Insomma, ci si trova in una condizione di generale stagnazione.
Chi sa che, dopo sessantotto anni di regime, il 40% delle attività industriali e agricole sono ancora svolte manualmente? Che nel 1984, come nel 1964, otto milioni di piccoli orti privati hanno prodotto, sul 5% delle campagne, il 25% della produzione agricola? I soli successi(vi) sono quelli realizzati nel campo militare-industriale.
Da un anno Gorbaciov e i suoi fedeli insistono sulla necessità di appoggiare «tutto quanto è nuovo e progressista», ma Cernenko e i suoi si appoggiano sui «successi» passati del programma Breznev, che, dal 1968 al 1982, ha sistematicamente vanificata oppure sabotata ogni riforma seria, che potesse togliere agli uomini dell’apparato incompetenti i loro poteri illimitati.
Gli uomini di Cernenko deplorano costantemente «il declino ideologico», soprattutto nella gioventù (1). Identica constatazione viene fatta in seno ai partiti comunistici stranieri. Le riviste del Partito Comunista dell’URSS non lamentano solamente «la crociata imperialistica anticomunistica», ma, allo stesso titolo – cosa che non si sarebbe letta in altri tempi -, «le critiche di certi nostri compagni, a Pechino, a Belgrado, a Varsavia, a Roma e a Parigi».
La riunione dei partiti comunistici stranieri, svoltasi a Praga nel dicembre del 1984, ha conosciuto delle alzate di voce, soprattutto da parte giapponese, che, sotto Stalin, sarebbero costate ai loro autori la vita oppure la espulsione. E appena Boris Ponomarev – che a fine gennaio ha ricevuto per la sesta volta l’ordine di Lenin, alla età di ottant’anni – lancia la idea di una conferenza generale della internazionale comunistica, sette o otto partiti ne contestano il realismo, nelle condizioni presenti. Infatti si pone costantemente il problema di sapere attraverso quale strategia, e sotto la guida di chi ci si debba allineare dal momento che «la linea» rischia di cambiare insieme al cambiamento dell’erede del potere a Mosca. Non solo diversi membri titolari dell’attuale Politburo hanno ciascuno la loro clientela personale all’interno dei grandi partiti comunistici stranieri, ma da quando chi dirige il KGB siede nel Politburo stesso, cioè dal 1967, egli si serve spesso dei suoi agenti segreti in seno a ciascuno di tali partiti comunistici stranieri, per manovre oppure per intrighi spesso opposti a quelli del dipartimento per gli affari esteri della direzione sovietica.
Prova di questi contrasti si è avuta in Italia, nel 1984, quando, giovedì 4 ottobre, l’ambasciatore sovietico a Roma N. Lunkov «consigliava», dietro ordine del Politburo, al Partito Comunista Italiano di astenersi da un voto in parlamento per evitare che si potesse costringere il ministro Andreotti a dare le dimissioni e a sottoporsi a una inchiesta sullo scandalo Sindona-P2, mentre venerdì 5, su «suggerimento» di un’altra fìlière del Politburo, lo stesso Partito Comunista Italiano annunciava un cambiamento di atteggiamento e di voto. Evidentemente una tendenza voleva salvare Giulio Andreotti, che dal 1970 sostiene a spada tratta la distensione tra Occidente e Oriente e i «soci» dell’URSS, come Peron, Assad, Gheddafi, e così via, svolgendo in questo modo una linea politica preconizzata anche dalla branca italiana della Commissione Trilaterale, mentre l’altra tendenza pensa che il Partito Comunista Italiano debba liberarsi da ogni compromissione con la P2, soprattutto perché Gelli ha avuto contatti con il KGB.
Tutte queste contraddizioni si possono verificare leggendo giornali e riviste sovietici, dove, per esempio, un certo passaggio cruciale di un discorso di Gorbaciov è censurato dalla Pravda, ed è invece diffuso da Radio Mosca, come è accaduto il 26 marzo 1984; dove l’ideologo riformista A. Butenko è contrastato apertamente da R. Kossolapov; dove V. Semionov, redattore capo di Voprosi Filosofii, è contraddetto da P. Fedoseiev, e così via, per parlare solamente degli ultimi otto mesi, e a proposito di problemi cruciali come quello se «una situazione di tipo polacco» possa verificarsi nell’URSS, oppure se «l’èra dei manager» possa salvare la economia dalla stagnazione, come pretende Butenko.
Vi sono poi conseguenze sul piano interno, nella prospettiva del prossimo congresso del Partito Comunista dell’URSS, per cui i principali membri del Politburo si scontrano in ciascuno dei loro «feudi», con il pretesto della disciplina, della efficacia, della competenza, per epurare quanti, in veste di delegati al congresso, potrebbero disturbarli nelle loro ambizioni e nella loro permanenza nel Politburo.
Stando così le cose, una trentina dei centoventi primi segretari regionali dell’URSS è stata destituita in diverse repubbliche. Ma altri resistono, come a Kaliningrad, perché gli uomini di Cernenko hanno tanti argomenti quanto quelli di Gorbaciov per mantenere al suo posto P. Leonov, il primo segretario del luogo. Di conseguenza, nessuno dei problemi regionali viene sistemato, e se un clan «purga» a suo piacimento a Rostov, l’altro replica a Celiabinsk, e così via.
Tuttavia, questa lotta condotta dall’alto, attraverso alcune centinaia di membri della Nomenklatura, non deve nascondere l’orientamento del potere verso il nazionalcomunismo sovietico, espansionistico di sua natura, come dice il sovietologo Pipes, e di necessità. Si legga con attenzione quanto scriveva uno dei «santoni» del potere, E. A. Ambartsumov, nel momento in cui la Polonia, e una eventuale situazione «di tipo polacco», minacciavano l’impero sovietico (2). Egli invitava ad avere presente «il precedente storico» costituito dalla rivolta di Kronstadt nel 1921, esemplare perché Lenin «seppe combinare la repressione delle forze contro-rivoluzionarie e la introduzione nell’URSS della Nuova Politica Economica», le cui conseguenze furono «positive»!
La NEP, la Nuova Politica Economica, è stato l’appello lanciato ai capitali e a diverse centinaia di ditte europee e americane perché facessero uscire l’URSS dalla sua disastrosa situazione economica. Ebbene, questo aiuto straniero ha, nel corso di otto o dieci anni, mutato in qualche cosa la natura del regime sovietico? Di fatto, ha coperto le peggiori uccisioni e le peggiori deportazioni in massa. Anche Trotsky, rifugiato in Occidente dal 1929, non fu ascoltato in proposito. Credere che oggi le cose andranno diversamente è la conseguenza di una pericolosa utopia. Il nazionalcomunismo sovietico è una miscela di Lenin più Stalin, nuovamente celebrato, più il KGB, più un esercito ben diverso da quello del 1921, che allora era inesistente. Come si vede, ve ne è quanto basta per reprimere tutta Kronstadt, prima di colpire altrove!
2. L’entrata in scena dei nazionalcomunisti sovietici
Ecco, dunque, Mikhail Sergheevic Gorbaciov intronizzato come settimo «numero uno» sovietico dopo Lenin, ma il solo, dopo Stalin, Breznev, Andropov e Cernenko, a portare il titolo di segretario generale. Da un mese a questa parte tutto indicava che egli era semplicemente in attesa della scomparsa del capofila dei brezneviani per imporsi; ma, fino all’ultimo respiro del suo predecessore, i suoi oppositori hanno fatto tutto il possibile per ostacolare la sua marcia verso il potere supremo.
Stupisce che certi sovietologi non abbiano rilevata questa lotta che si svolgeva attraverso giornali comunistici interposti, perché la cosa era indicativa, in questi ultimi mesi, del fatto che, quando Gorbaciov fosse stato al potere, ci si sarebbe dovuta aspettare una vasta epurazione nell’apparato centrale e nelle province. Bisognerà anche osservare con attenzione, da ora in avanti, quanto accadrà in due organismi essenziali dell’alta gerarchia, e cioè alla direzione del KGB e nello Stato Maggiore Generale dell’esercito, dal momento che dodici dei tredici primi marescialli e generali che ne sono membri, sono anche viceministri della Difesa e fanno parte del comitato centrale del Partito Comunista dell’URSS.
Per esempio, V. Cebrikov, «numero uno» del KGB e membro supplente del Politburo, non ha mai fatto parte del clan di Gorbaciov, ma viene dalla «mafia» brezneviana di Dnepropetrovsk. Yuri Andropov aveva saputo neutralizzarlo, facendolo diventare, dal 1967, uno dei primi tre esponenti del KGB, al suo fianco. Forse Gorbaciov è riuscito a farlo allineare sulle sue posizioni, ma soltanto il futuro lo dirà.
Allo stesso modo, i rimpasti che si sono improvvisamente verificati al ministero della Difesa dopo la morte del maresciallo Ustinov, nel dicembre del 1984, e che sono stati ignorati dalla stampa occidentale, non si possono certamente considerare definitivi. Il siluramento del maresciallo Ogarkov, nell’ottobre del 1984, era avvenuto con il consenso del Politburo, e quindi anche con quello di Gorbaciov, perché, di fatto, questo esponente politico-militare parlava più ad alta voce e con maggiore energia di quanto non potesse ammettere la Nomenklatura «civile». Ma, dal gennaio del 1985, vi sono state altre promozioni attorno al nuovo ministro della Difesa, il settantatreenne maresciallo Sokolov, a proposito delle quali non si può garantire che siano state tali da soddisfare le ambizioni e le prospettive strategiche dei giovani generali delle diverse armi, che sono della generazione di Gorbaciov, e neppure di certi ammiragli.
Questa generazione, che va dai quarantacinquenni ai circa cinquantacinquenni, è decisamente imbevuta di nazionalcomunismo sovietico nel senso imperialistico e, per così dire, mondialistico del termine. La messa in scena costituita dai negoziati di Ginevra è, in questa prospettiva, soltanto una sorta di strizzatina d’occhio che mira a blandire la opinione pubblica straniera, per dare a Gorbaciov il tempo di riorganizzare l’apparato centrale del partito e del governo, in modo tale da essere ubbidito. Questo tempo è indispensabile all’URSS per assicurarsi certe importazioni essenziali per superare diversi colli di bottiglia che strangolano la sua economia. Questo stesso tempo è a essa necessario per farla finita con diversi focolai come quello costituito dalla resistenza in Afghanistan, e dalle guerre che non accennano a terminare, come quelle in Etiopia oppure in Angola. Questo può avvenire, per esempio, attraverso suoi cedimenti in territori troppo lontani e che costano troppo, come quelli africani, per tanto meglio dominare sulla sua periferia, e per colpire in Medio Oriente, attraverso il terrorismo, come a Beirut in questi ultimi tempi, se l’Occidente non cede alle sue condizioni.
Ammiratore di Andropov, Gorbaciov è, da questo punto di vista, persino più colto e più sottile dei veterani del Partito Comunista. Non si deve dimenticare che ha avuto come professori, alla università di Mosca, stalinisti e grandi-russi come A. Denisov, F. Kojevnikov e, soprattutto S. Yushkov; e come «padrini» politici non solamente Andropov, ma, prima di lui, Mikhail Suslov, il «grande inquisitore» dei tempi di Stalin e uno dei tecnici delle repressioni degli anni Trenta, che non ha favorito a caso la sua rapida ascesa, dal 1971 al 1980, per farne, a quarantanove anni, appunto nel 1980, uno dei segretari del partito.
Sulla base dei suggerimenti di consiglieri come gli accademici Ambartsumov oppure Agangeban e assecondato da uno degli attuali dieci segretari del comitato centrale del Partito Comunista dell’URSS, il cinquantaseienne N. I. Ryjkhov, è probabile che Gorbaciov conceda una «decentralizzazione» suscettibile di migliorare la produzione agricola e industriale, ma la combinerà con un rafforzamento – mai visto dopo quello operato da Beria negli anni dal 1947 al 1952 – dell’apparato repressivo. D’altra parte, dal gennaio del 1985, egli ha incaricato il quarantatreenne bianco-russo Ghennadi F. Polozov di mettere a punto l’inquadramento politico-giuridico, quindi poliziesco, che deve sorvegliare l’applicazione delle «riforme» economiche appena avviate sotto Andropov, ma bloccate sotto Cernenko.
Per neutralizzare i suoi oppositori o rivali, come i veterani Tikhonov, presidente del consiglio, V. V. Kuznetzov, primo vicepresidente del Soviet Supremo, e i «giovani» come G. Romanov, Gorbaciov ha manovrato in un modo che si è tradotto nella posizione gerarchica – fissata da lui, in quanto responsabile della commissione per le onoranze funebri – attorno al feretro di Cernenko, il 12 marzo 1985, nella Casa dei Sindacati. Tikhonov figurava evidentemente al secondo posto, in considerazione della sua carica, e Gromiko veniva dopo di lui, a simboleggiare la continuità della politica estera dal 1957. Poi veniva il vecchio Viktor Grishin, settantunenne, che dopo sette anni di intrighi riusciva finalmente ad apparire fra i «primi» cinque esponenti del Politburo, davanti a G. Romanov, come se fosse destinato alle più alte responsabilità.
Un segno aveva annunciato questa «promozione» e il CEI, il Centre Européen d’Information, lo aveva già rilevato il 16 febbraio 1985: Gorbaciov aveva imposto come «numero due» del ministero degli Interni Vassili Trushin, un protetto di Grishin, e si era così assicurato le sue buone grazie, togliendo da questo posto V. Churbanov, marito della figlia di Breznev.
Allo stesso modo, ha improvvisamente imposto il turbolento e ambizioso ucraino Vladimir Sherbitsky, sessantottenne, alla testa della delegazione sovietica invitata dal Congresso degli Stati Uniti … proprio nel momento in cui a Mosca si sapeva che Cernenko aveva soltanto qualche giorno di vita. Così neutralizzava, mandandolo all’estero, uno dei dieci membri titolari del Politburo, poco sicuro dal suo punto di vista e rientrato appena in tempo per il funerale.
Nello stesso tempo, qualche giorno prima della morte di Cernenko, una importante conferenza a porte chiuse aveva riunito a Mosca, attorno al ministro dell’Interno Fedorchuk e al nuovo «numero due» Trushin, tutti i ministri degli Interni delle quindici repubbliche dell’URSS, il ministro della Giustizia, il presidente della Corte Suprema, il procuratore generale dello Stato, e i responsabili del corrispondente dipartimento del comitato centrale del partito, allo scopo di mettere a punto una vasta campagna di purghe e di provvedimenti disciplinari in tutti gli ingranaggi e in tutti i campi della vita sovietica, dall’alto al basso della amministrazione.
Questo significa che la momentanea apertura all’occidente e le strizzatine d’occhio per blandire «l’Europa» sono destinati ad accompagnarsi a un nazionalcomunismo sovietico deciso, come ieri lo era il nazionalsocialismo tedesco, a fare regnare l’ordine nell’impero e sulle sue frange.
Non si sa se Roland Dumas, il ministro degli Esteri francese presente a Mosca al momento dell’annuncio ufficiale della morte di Cernenko, se ne sia reso adeguatamente conto.
Pierre Faillant de Villemarest
Note:
(1) Cfr. A. Volodin e V. A. Plechenev, uno dei sei segretari di Cernenko, sulla Komsomolskaia Pravda, del 9-6-1984.
(2) Cfr. la rivista Voprosi Istorii, dell’aprile del 1984.