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L’eredità maledetta di Duchamp

6 Ottobre 2018 - Autore: Francesca Morselli

di Francesca Morselli

 

Marcel Duchamp (1887-1968), artista francese naturalizzato statunitense, decisamente rivoluzionario, nel 1913, con l’opera Ruota di bicicletta, ricusa la pittura che egli chiama retinica (cioè puramente visiva) e si dà alla produzione di “ready-mades” (i “già fatti”), cioè oggetti ripresi dalla quotidianità che l’artista sceglie per decontestualizzarli e assemblarli come crede. Duchamp ‒ in una intervista del 1955 rilasciata al critico statunitense James J. Sweeney (1900-1986) e accolta nel libro Wisdom: Conversations with the Elder Wise Men of Our Day, a cura di James Nelson (Norton, New York 1958, p. 97) ‒ spiega così il processo intellettuale che sta alla base di quelle realizzazioni: «La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria.

Gli ultimi cento anni sono stati retinici. Sono stati retinici perfino i cubisti. I surrealisti hanno tentato di liberarsi da questo e anche i dadaisti, da principio. […] Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare».

Fontana – 1917

Nel 1917, a New York, espone, con lo pseudonimo di «R. Mutt» un orinatoio bianco, comperato in una normale rivendita di articoli sanitari. L’“opera” avrebbe valore perché scelta dall’artista, decontestualizzata dalla propria funzione, firmata e pure intitolata Fontana (per giocare con le parole e i significati). Perché firmarlo «R. Mutt»? Se si ripercorre la vita di Duchamp, si nota come il paradosso e la provocazione siano i suoi elementi fondamentali: per cui la scritta, leggendo cognome e nome puntato con ordine invertito, sarebbe “Mutt -er”, cioè “mamma” in tedesco, e l’orinatoio un grande utero materno. D’altronde, negli anni statunitensi Duchamp si fa spesso fotografare travestito da donna e il suo pseudonimo è «Rose c’est la vie» (anagramma fonetico di «Eros c’est la vie») che rappresenta, come egli stesso afferma, la parte femminile di se stesso.

«Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l’idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l’idea: perché non cambiare di sesso? Da qui viene il nome di Rrose Sélavy.…».

Duchamp quindi, non si occupa solo di arte. Anzi, prevalentemente il suo è uno studio sociale, diretto contro la società borghese e contro le convenzioni. È proprio questo suo approccio a influenzare tutta l’arte del Novecento.

Prima il movimento Dada, che a Duchamp si rifà direttamente, riproponendone il fare provocatorio e riunendo nel 1916, a Zurigo, un gruppo di artisti nudisti, pacifisti e vegetariani che volevano sfuggire alla Prima guerra mondiale (1914-1918). Questo movimento anarchico, di breve durata, risulta il più caratterizzante del secolo XX proprio per il suo spirito polemico e anti-gerarchico animato da un chiaro intento di abolizione della memoria, dei profeti e dell’archeologia a favore dei non-valori e del non-senso.

La visione di Duchamp viene comunque ripresa anche dai surrealisti, che lottano contro la “Stupidità Convenzionale” (il pittore e scultore tedesco naturalizzato francese Marx Ernst [1891-1976] allestisce una mostra a Colonia dove una ragazza in abito da comunione proferisce frasi oscene) e dall’Arte concettuale, che pone l’accento sulla genesi ispiratrice dell’opera più che sul prodotto finito, passando per la poetica dell’oggetto e della sua riproducibilità tipica della pop art.

L’idea di Duchamp attraversa davvero il «secolo breve», alimentando l’arte contemporanea con un spirito potentemente anti-convenzionale e provocatorio, e legando indissolubilmente l’arte sia al quotidiano sia alla denuncia sociale e politica.

Se poi, entrando in una galleria d’arte contemporanea, non “capiamo” un’opera e tentiamo interpretazioni personali non meravigliamoci.

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