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L’Europa muore. Ma può rinascere

9 Luglio 2016 - Autore: Marco Invernizzi

Hanno voluto farla contro le radici cristiane, disprezzando il contributo di un papa santo, salvo celebrarlo il giorno del suo funerale, quando davanti alla salma di Giovanni Paolo II sfilarono tutti coloro che non avevano messo in pratica quasi nulla dei suoi insegnamenti sull’Europa.

Hanno voluto farla senza i popoli, accusando di populismo coloro che ricordano come sotto la burocrazia di Bruxelles ci siano persone e famiglie che vivono e lavorano e non capiscono perché dovrebbero uniformarsi a direttive astruse, che vorrebbero farci cambiare il modo di mangiare e bere, dormire e lavorare, quasi che i singoli popoli dell’Europa fossero composti da minus habens che devono essere strappati alle loro abitudini per entrare finalmente nel divino “mercato“.

Ancora recentemente, il 6 maggio, ritirando il premio Carlo Magno e parlando naturalmente di Europa, il Pontefice ha invitato a “fare memoria“, non disprezzando i padri e i loro insegnamenti, non soltanto i Fondatori ma tutti coloro che hanno resa grande l’Europa, a cominciare dall’imperatore che tutti ricordiamo senza capire il suo messaggio.

Il sogno di un’Europa capace di integrare, dialogare e generare, auspicato dal Vescovo di Roma, sembra essersi infranto. Il sogno di un’Europa delle famiglie sembra infrangersi ogni volta che dall’Unione europea arriva una direttiva contro la famiglia.

L’uscita del Regno Unito con il referendum del 23 giugno è un ulteriore passaggio che segna lo sfaldamento dell’Unione europea. Come scrive nel suo recente Mundus furiosus (Mondadori, 2016) Giulio Tremonti, docente e già ministro dell’economia e delle finanze, l’Unione europea ha fatto quello che non doveva fare e non ha fatto quello che doveva. Si è così resa insopportabile per il cittadino, arrivando ad avere la stessa cattiva fama di cui ha patito lo Stato centralista e invasivo che ha prodotto la reazione popolare degli Anni Ottanta, soprattutto nel Nord Italia. E così la UE non ha contribuito ad alimentare quell’ideale di Europa, rispettosa delle diverse tradizioni popolari dei 28 paesi che la costituiscono, perché non ha mai voluto attingere al patrimonio classico e cristiano che garantisce la sola vera unità fra popoli tanto diversi.

In un libro che aiuta a capire le cause della crisi (anche se all’interno di una ricostruzione storica discutibile), Tremonti offre indicazioni piene di buon senso e di rispetto per il principio di sussidiarietà, sul quale soltanto sarebbe possibile costruire un futuro realistico per i popoli europei.

Adesso che per i burocrati di Bruxelles le cose si mettono veramente male, bisogna però evitare di commettere altri errori. Il primo sarebbe quello di auspicare un ritorno agli Stati nazionali isolati, che verrebbero fagocitati dalle stesse forze cosmopolite, finanziarie e tecnocratiche che comandano oggi e sono entrate con pessime intenzioni nella “vita degli altri”, come bene spiega Tremonti. Il nazionalismo non è la cura, ma un altro aspetto della stessa malattia che sta facendo morire l’Europa. O, se si vuole, la malattia precedente.

Dopo la caduta delle ideologie le vecchie ricette ideologiche non servono. Non esiste la soluzione, assoluta e definitiva. Esistono dei principi da cui partire, senza i quali non si va da nessuna parte. Ed esiste un metodo, sul quale Tremonti riprende alcuni spunti del discorso del Pontefice, per cui bisogna integrare, come hanno fatto tutte le culture forti per diventare civiltà durature. E bisogna imparare a dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo, evitando di imporre modelli tecnocratici estranei alla cultura dei popoli.

Bisogna infine, aggiungo, ma Tremonti è aperto a questa prospettiva non pessimistica, restituire la speranza a quelle realtá, come la famiglia che sta a fondamento delle società, che sono state “maltrattate” dai poteri forti europei, per usare sempre la parola del Papa. Perché siamo dentro un mondo che muore, un mondo che non ha fatto nulla per rendersi amici i popoli. Ma un altro mondo potrà vedere la luce, se sapremo coltivare la speranza.

Marco Invernizzi

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